lunedì 17 dicembre 2012

IN VISTA DEL NATALE, UNA MATTINA FRA AMICI


PISTOIA. Il dottor Paolo Caselli mi scrive:

Caro Edoardo,
l’approssimarsi del Natale costituisce sempre un evento nodale per i Cristiani e impone riflessioni che introducono novità nella nostra esistenza, seguendo il mutamento di mente, la metànoia evocata da Cristo.

A questo proposito riflettevo come spesso siamo spettatori passivi degli avvenimenti e ci affidiamo ai comuni stereotipi che i mezzi di comunicazione più o meno insistentemente ci impongono.
Allora, se penso che Cristo è nato nel silenzio assoluto, annientandosi poi gratuitamente per gli uomini, mi vengono alla mente tanti Maestri sconosciuti, spesso emarginati in vita, salvo poi rivalutarli “ad usum delphini” post mortem e tanti uomini che hanno sacrificato la loro esistenza per un ideale dei quali, in genere per opportunismo, non abbiamo il coraggio di riproporre le istanze.
Ma oggi, chi sarebbe disposto a sacrificarsi per un ideale?
Padre Giovanni Vannucci, uno dei più grandi uomini Spirituali del ’900, Contadino del cielo come amava definirlo il confratello Padre Turoldo, era solito dirmi che l’uomo preferisce purtroppo la complicazione alla semplicità, perché questa è limpida e trasparente, mentre l’altra consente le vie traverse e confuse spesso per giustificare in buona pace il malfare.
Siamo tutti azzeccagarbugli!
Credo quindi opportuno ricordare il Natale con essenziale semplicità, evitando tutte le sovrastrutture che la nostra dissociata mente vi ha costruito sopra. Ed a questo proposito desidero con gioia inviarti un Pensiero sul Natale, credo quanto mai attuale, di Don Ernesto Buonaiuti.
Un caro saluto e Buon Natale augurando a Tutti di poter seguire l’essenziale: La via della Pura Semplicità.
Paolo

NATALE 1944

La celebrazione di una nascita prodigiosa, in coincidenza col solstizio d’inverno, sprofonda le sue radici nelle più vecchie consuetudini sacrali del nostro mondo mediterraneo. Non per nulla la rievocazione del Natale è raccomandata soprattutto alla forma più embrionale e primitiva del nostro passaggio dalla preistoria alla storia, all’attività pastorale. Molti secoli prima che la società cristiana fissasse al 25 dicembre la commemorazione solenne della nascita di Cristo, nel Vicino Oriente la religione di Zarathustra, affidata alla propaganda dei Magi e rielaborata attraverso le mirabili speculazioni astronomiche del mondo assiro-babilonese, aveva educato all’esaltazione e alla commemorazione di Mitra, Dio del Sole e della verità, nel giorno stesso in cui, dopo avere nel primo punto del Capricorno cessato di scendere sotto l’Equatore e dopo essersi arrestato per riavvicinarglisi, il Sole riprende il suo cammino trionfale sulle tenebre, aggiungendo, istante dopo istante, un più ampio circolo al suo quotidiano cammino.
C’è cosa che sconvolga più in profondità lo spirito umano del contrasto ritmicamente periodico fra la luce e le tenebre? E c’è antitesi che meglio si sarebbe potuta, offrire come termine di comparazione alla nostra sensazione del conflitto incessante fra bene e male, fra verità e menzogna, fra chiarezza ed insidia, fra ideale e realtà, che il contrasto familiare fra la luce e le tenebre?
C’è da pensare quale sia stato inizialmente lo sgomento dei primi uomini che osservarono con trepidante ansietà l’assottigliarsi progressivo della durata del giorno, dal solstizio estivo al solstizio invernale. Non avranno essi potuto temere che la luce dovesse sempre più immiserirsi e rattrappirsi, fino a cedere, disfatta, il posto al dominio incontrastato ed irresolubile della notte? E invece ecco che ad un certo momento il sole, dopo un istante di esitazione, sembrava debellare l’insidia delle tenebre, per riprendere vittoriosamente il suo cammino trionfale. La durata della luce si protraeva, fino a raggiungere la massima durata, quando il sole toccava il primo punto del Cancro.
Esiste dunque un parallelismo perfetto fra il decorso delle peregrinazioni solari e il decorso delle peregrinazioni umane. Anche la verità, che è la luce dello spirito; anche il bene, che è l’alimento del cuore; anche la giustizia, che è l’ideale della vita, aggregata; subiscono le loro oscillazioni e sono votate agli immancabili ritorni. Il solstizio d’inverno merita di essere celebrato, come l’inizio simbolico di ogni ripresa, nella spiritualità e nella riaccensione dei valori eterni.
Mitra non era stato che un prefiguratore di Cristo. Il Sol invictus doveva cedere il posto al Sol salutis.
Non sappiamo se noi esageriamo dicendo che da quando per la prima volta fu ufficialmente sanzionata e canonizzata la commemorazione della natività di Cristo al 25 dicembre, ad oggi, attraverso tanto lungo decorso di secoli, la commemorazione natalizia mai si è presentata tanto incisivamente significativa per noi come quest’anno.
Siamo ad un vero solstizio invernale della civiltà e della esperienza sorta dalla predicazione evangelica. Ci sarebbe da disperare dell’avvenire superstite, della luce delle nostre tradizioni e dei nostri ideali, se l’avvento del Sol salutis non ci avesse insegnato che quando tutto giace nelle tenebre e tutto tace nello sgomento e nell’apprensione, il sole riprende il suo cammino ascensionale per guadagnare, passo passo, sulla foschia della menzogna, della viltà, dell’ingiustizia, della barbarie, un sopravvento che è, sì, lento e faticoso, ma è anche certo ed infallibile.
Don Ernesto Buonaiuti

Caro Paolo…
te le ricordi le lunghe mattinate al Forteguerri?
Erano mezzo secolo fa: un abisso di tempo, a guardarle con gli occhi dell’umanità, che i lirici greci definivano oligochrònia, “di breve durata”; ma non più di “uno sputo in terra”, se viste con la lente di Dio, l’infinità.

LA FORTUNA

«Maestro mio», diss’ io, «or mi di’ anche:
questa Fortuna di che tu mi tocche,
che è, che i ben del mondo ha sì tra branche?».

E quelli a me: «Oh creature sciocche,
quanta ignoranza è quella che v’offende!
Or vo’ che tu mia sentenza ne ’mbocche.

Colui lo cui saver tutto trascende,
fece li cieli e diè lor chi conduce
sì, ch’ogne parte ad ogne parte splende,

distribuendo igualmente la luce.
Similemente a li splendor mondani
ordinò general ministra e duce

che permutasse a tempo li ben vani
di gente in gente e d’uno in altro sangue,
oltre la difension d’i senni umani;

per ch’una gente impera e l’altra langue,
seguendo lo giudicio di costei,
che è occulto come in erba l’angue.

Vostro saver non ha contasto a lei:
questa provede, giudica, e persegue
suo regno come il loro li altri dèi.

Le sue permutazion non hanno triegue:
necessità la fa esser veloce;
sì spesso vien chi vicenda consegue.

Quest’ è colei ch’è tanto posta in croce
pur da color che le dovrien dar lode,
dandole biasmo a torto e mala voce;

ma ella s’è beata e ciò non ode:
con l’altre prime creature lieta
volve sua spera e beata si gode.

[Dante, Inferno, VII]
Noi ci siamo incrociati lì e sulla stessa sponda. Cattolica.
Poi il tempo è iniziato a scorrere: lento e inesorabile, impercettibile e crudele. Qualche anno dopo quel nostro incontro, quando un compagno d’armi di mio padre – Italo Mason, di Treviso – venne a ricercarlo a 30 anni secchi di distanza dalla guerra passata insieme, quei 30 anni mi parvero (ancora) un’eternità invalicabile.
E invece eccoci qua, caro Paolo: io sopravvissuto al ginnasio della Leda Mansi (con cui riallacciai cordiali rapporti decenni dopo…) e tu uscito dalle mani della Danesi (o sbaglio?).
C’era la San Vincenzo de’ Paoli, c’era don Gargini, c’era Sauro Becattini, c’era la Tommasina Mandorli, il cui figlio ha curato il mio infarto di qualche anno fa.
L’abisso si è allargato, come vedi, e, nell’aprirsi del chàsma – la bocca dell’abisso, il gap temporale – abbiamo seguito strade diverse.
Eppure siamo sempre qui: tu cerchi ancora la Verità negli ideali di un tempo, io ho cambiato punto di prospettiva, ma sto ancora cercando la verità con una lotta che non è mai venuta meno e di cui – credimi – sono molto laicamente fiero: cioè senza alcuna superbia (che invece vedo, purtroppo, dilagare altrove).
E mentre tu mi saluti ancora come se stessimo salendo i pochi scalini dell’androne sinistro del Forteguerri (quelli che portavano alle toilettes, sala di incontro di tutti noi come – absit iniuria verbis! – la Sala Terzani di quell’orrore che mi sembra essere la Biblioteca San Giorgio, una biblioteca che ha l’ingresso spostato dalla parte del… l’innominabile), io ti rispondo ancora con la stessa semplicità con cui ci parlavamo mezzo secolo fa.
Mezzo secolo, Paolo. Un mare infinito per gli uomini che durano poco: uno sputo in terra se guardato con la lente di Dio.
Antonio Nardi, socialista craxiano come me, ma diversamente da me cattolico fin nel midollo, grande amico – come avrai letto su questo blog –, mi diceva che non riusciva a capire come, cinquant’anni dopo, avessi ancora tanta forza in copro da cercar di lottare contro l’ineluttabile con il mio giornalismo che qualcuno definisce sprezzantemente “onesto” fra virgolette perché non capisce (per phýsei e thèsei: cioè per [propria] natura e per [propria] posizione) quid sit honestas, cosa sia l’onestà – e la confonde con il successo economico e monetario, da perfetto sostanziale calvinista elvetico.
È, Paolo, che io sono fatto così per phýsei e thèsei: cioè per [mia propria] natura e per [mia propria] posizione.
Di meglio non so dire o spiegare: ma se tu, dopo mezzo secolo, e dopo tanti decenni di silenzio, ti rivolgi ancora di nuovo a me come allora sui pochi gradini del corridoio del Forteguerri, questo non può che voler dire una e una cosa soltanto: che nulla è cambiato a livello umano e profondo, pur nella diversificazione di due vite differenti e in differenti direzioni orientate. E che il dialogo e la ricerca possono continuare – come dici tu – in “Pura Semplicità”.
Perché – vedi, caro Paolo? – io non credo che sbaglino gli uomini alla ricerca ancora dopo 50 anni di vita, tormentati e problematici: no. Ma coloro che, pur ottuagenari come il personaggio di Ippolito Nievo, dopo una vita solo di successi e di brillante carriera, sono a un passo dal traguardo e – come scriveva Seneca – non se ne avvedono e pensano che la Morte sia distante da loro perché non solo non la intravedono, ma – in assoluta superbia – non la concepiscono neppure: mentre essa è tutta alle loro spalle, in quegli ottant’anni che sono già tutti suonati.
E vivono come dovessero essere eterni: forse perché non hanno mai letto La roba di Verga e, come Mazzarò, hanno fondato tutta la loro esistenza non su se stessi e i loro sforzi umani, ma sui beni materiali e su ciò che, nella tomba, non ci si porta proprio.
Ti abbraccio fraternamente e ricambio il tuo ‘anomalo’ augurio natalizio con ogni affetto.
Con il piacere di averti ritrovato fresco e intatto come il giovanetto di ieri, di mezzo secolo fa.
Edoardo
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[Lunedì 17 dicembre 2012 - © Quarrata/news 2012]

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