di Luigi Scardigli
C’è qualcosa di innaturale nella sepoltura di un figlio da parte del padre.
C’è qualcosa di profondamente innaturale quando il figlio viene sepolto perché morto ucciso da un colpo di pistola sparatogli da un carabiniere mandato al massacro a soffocare un movimento che aveva voglia di dire la sua su questa grande balla della globalizzazione.
Da quel maledetto 20 luglio 2001 – quando in piazza Alimonda, a Genova, nel pomeriggio della kermesse del G8 tra i grandi Paesi che vivono sull’agonia dei Paesi poveri, rimase senza vita il corpo martoriato di Carlo Giuliani, 23 anni appena compiuti –, sono già passati dieci anni.
Inutilmente, verrebbe subito da dire, osservando le immagini della Val di Susa, dove ad opporsi a lavori tanto inutili, quanto lucrosi e inquinanti, stavolta, a provare a fare le barricate, non ci sono il blocco nero, ma le donne e i vecchi che vivono da sempre sulle pendici delle Alpi e che di questa alta e grande velocità non sanno di che farsene e non vogliono pagarla.
Giuliano Giuliani però, che dieci anni fa seppellì suo figlio, è riuscito, chissà come, a trasformare quell’inconsolabile e incolmabile dolore in energia e va ancora in giro – dove può e dove le sue forze di ultra settantenne ancora glielo consentono – a raccontare non come siano andate veramente le cose in quel maledetto pomeriggio di un giorno da cani, ma come e cosa si possa fare perché nessun altro ragazzo, come il suo, come il Nostro, Carlo, venga falciato nel bel mezzo di un’idea.
L’altra sera era a Serravalle pistoiese, invitato alla festa della Cgil: peccato che il filmato e il suo scarno e dignitoso intervento siano coincisi, pure coincidenze, certo, con i contemporanei interventi che più in là, nel giardino degli ulivi, esternavano Bindi e Mussi.
«Senza memoria non c’è futuro – ha ribadito più volte Giuliano Giuliani – e non chiedetemi come abbiamo potuto fare, mia moglie ed io, a superare e metabolizzare quell’immenso e immane dolore che è stato l’assassinio di nostro figlio. Che non è stato ucciso, badate bene, dall’allora carabiniere di ferma Mario Placanica, giovane gendarme alle prime armi, ma da un militare scelto, che ha avuto la forza e la perizia di mirare, coprirsi, non farsi riprendere dalle telecamere e uccidere Carlo. Per non parlare dell’altro carabiniere, quello che si è preoccupato di sfigurare nostro figlio morto sollevandogli il passamontagna e rovinandogli i lineamenti di un corpo già esanime con una grossa pietra. Non sono venuto a soffiare sulla brace di una giustizia che non ha ancora fatto giustizia, ma sono venuto qui, come in tutti i posti dove vado, per ricordare a tutti di non dimenticare: non dimenticare il sacrificio di mio figlio come tutto ciò che la storia, in nome degli interessi e del profitto, ha sacrificato sul proprio altare dorato. Purtroppo, la storia di questo Paese negli anni successivi all’omicidio di mio figlio, non ha certo provato a rimarginare quella ferita: i Generali che sghignazzarono sul dolore di mio figlio sono stati ulteriormente glorificati; il movimento no-global chirurgicamente criminalizzato, dimenticando che in quel pomeriggio del 20 luglio 2001, le forze dell’ordine non attaccarono i cosiddetti black block, ma ebbero l’ordine di infierire sulla moltitudine di inermi e inerti che erano lì per provare a dire che un altro mondo fosse possibile. E fino a quando vivrò cercherò di coltivare, con questa meravigliosa moltitudine di giovani che incontro sistematicamente, il sogno di mio figlio».
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[Martedì 28 giugno 2011]
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