domenica 3 luglio 2011

AMIANTO. MORTI E SEPOLTI DA TUTTI


di Luigi Scardigli



Ieri sera, alla festa della Cgil di Serravalle, ci sono andato perché dovevo.
Nello stand adibito ai dibattiti infatti è stato proiettato «Lavorare da morire», un corposo documentario ideato e diretto da Lorenzo Gori con la collaborazione di Marta Quilici.
Dovevo esserci, ieri sera, perché ho partecipato anch’io al progetto del regista (fotografo del quotidiano Il Tirreno), perché accanto agli ex operai della Breda, protagonisti di questo racconto già applaudito al teatro Bolognini e altrove in queste ultime due stagioni, ci sono anch’io.
Si è parlato di amianto, naturalmente, la polvere sottile più respirata alla Breda, quella che causa il mesotelioma, il tumore più subdolo che ci sia, quello che si nasconde sottotraccia anche per una vita intera e che improvvisamente esplode, lasciando ai malcapitati giusto il tempo di farsi il segno della croce, qualora vogliano raccomandarsi l’anima a dio, visto che in terra, di pace, ne hanno avuta ben poca.
Lo si è fatto scientificamente, con le dichiarazioni di due medici intervistati dalla giornalista Marta Quilici che chiudono la proiezione, ma il tono è stato soprattutto onirico, con le immagini di una cara cronista scomparsa, Lucia Prioreschi, con i ricordi, ciechi, di un’altra giornalista che ci ha lasciato, Luana Rovini e con alcune visioni surreali in sequenza delle macerie dell’ex fabbrica della morte – adoperate per il primo lungometraggio di Lorenzo Gori “unsisapeanulla” – e che anticipano, in modo quasi spettrale, la recita teatrale.
Dopo la proiezione, il caloroso battimani, le singole pergamene di riconoscenza rilasciate a tutti i protagonisti dalla Cgil, c’è stato anche tempo e spazio per alcune riflessioni politiche, intavolate dall’onorevole Renzo Innocenti e da un delegato della Fiom.
«In una teca che conservo gelosamente a casa – mi ha raccontato Ivano Bernini, uno del cast del lungo metraggio, che ha compiuto 81 anni lo scorso 11 febbraio, in Breda dal 1947 al 1984, per lunghi ed interminabili trentasette anni: i primi quindici all’ufficio tecnico, i restanti come caporeparto alla carpenteria pesante – ho tutte le tessere del Pci: la prima la presi nel 1947, appena entrai a lavorare in fabbrica, l’ultima è quella dell’ultimo anno del partito. Non so più di che farmene, mi hanno cancellato anche la voglia e l’onore di ricordare».
Fingo di non avere bene in mente quello che Ivano mi ha già detto chissà quante volte da quando siamo diventati colleghi di palcoscenico: lo faccio per essere preciso, per poter appuntare, con dovizia di note, date e nomi, ma soprattutto per guardarlo diritto negli occhi, quando, seppur con fatica, parla della sua gioventù.
«Mi sono sposato con Ida nel 1953: da undici anni, mia moglie, è paralizzata e grazie agli aiuti intermittenti dei miei due figli, fino ad oggi, sono riuscito ad accudirla in casa, senza la presenza di estranei. Ma sono vecchio, e soprattutto stanco e non so fino a quando riuscirò ad essere efficiente. Perché ti dico questo, Luigi? Perché sono stato venti anni, la domenica mattina, dopo una settimana infernale trascorsa a lavorare in fabbrica, ad andare, casa per casa, a vendere l’Unità. Cos’è rimasto? Nulla, solo i nostri ricordi, le nostre illusioni. Siamo stati traditi dalla nuova generazione, perché la vecchia, me la ricordo: ai consigli comunali, nel 1947, 48, 49, ci si andava gratis e le riunioni si facevano dopo cena, perché di giorno nessuno poteva assentarsi dal lavoro. Cos’è rimasto? Nulla, solo il ricordo dei funerali dei miei colleghi, tutti compagni, tutti con la tessera del Pci che si sono portati fino nella tomba, nonostante ai loro trasporti funebri non abbia mai visto un rappresentante cittadino con la fascia tricolore, né uno dei politici eletti anche grazie alle nostre campagne elettorali: gli uni e gli altri, in compenso, si preoccupano di andare ad omaggiare le salme dei soldati che tornano dal fronte della guerra camuffata da pace: un operaio che muore per tumore ai polmoni perché ha respirato per anni la merda in fabbrica, non è forse un soldato morto al fronte? Cos’è rimasto? Nulla, solo i miei ricordi, visto che ora sembra che i responsabili di questa crisi siamo noi, gli operai in pensione, con un vitalizio di 1.200 euro al mese e che se dovessimo perdere l’autosufficienza, non basterebbero nemmeno per pagare una badante che ci venga a pulire il culo. Cos’è rimasto? Nulla, ma proprio nulla».

Cliccare sull’immagine per ingrandirla.
[Domenica 3 luglio 2011]

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