sabato 2 luglio 2011

CARLO MONNI. «FINO A QUANDO AVRÒ VOCE E VOGLIA»

di Luigi Scardigli


«Non ho la macchina, la televisione, il telefonino: sono un uomo a basso consumo. Con 100 euro al giorno, mangio, bevo e mi porto a letto una maiala: per me va benissimo».
Non è una gag scurrile così cara alla comicità toscana, ma la filosofia – debole quanto volete, ma che per ora è riuscita a dargli sostentamento –, di Carlo Monni, il contadino di spettacolo alla soglia dei settant’anni che, in barba a Vasco Rossi, non ha alcuna intenzione di appendere la propria blasfemia al chiodo e continua a girare per le piazze e le feste toscane a raccontarci come gli è andata, soprattutto in ottavine.
E ad osservarlo all’opera – è successo a Serravalle pistoiese, alla festa della Cgil – parrebbe proprio che la cura pane/vino/amore produca effetti miracolosi. Certo, prima di cena, una pasticchina (pare contro il colesterolo) l’ha presa, ma l’ha buttata giù con del vino bianco, di cui ha voluto sapere mittente e vendemmia.
«Sono troppo pigro per riuscire a stare nel circolo mediatico, preferisco sopravvivere alla giornata, senza impegni e poi ritirarmi, tutte le volte che posso, nella mia campagna, che è l’unica vera fonte di ispirazione poetica».
Era così, Carlo Monni, anche quando, dopo un esordio giovanissimo nelle feste paesane attorno a Champ sur le Bisence (Campi Bisenzio), dove è nato il 23 ottobre del 1943, si presentò in Rai con quel giovanotto di nome Roberto Benigni per dare vita a “Tele Vacca”, quel rotocalco surreale che fece da apripista ad una programmazione straordinaria culminata con gli show di Renzo Arbore, prima del lungo sonno.
«Ho deciso di buttare la televisione nella spazzatura quando un agente della riscossione venne a suonarmi alla porta chiedendomi il canone Rai: mi sembrò un sacrilegio pagare per assistere a tanta merda e allora buttai l’elettrodomestico nel bidone: da allora non ne ho più ricomprati e soprattutto, di tv, non ne ho più vista».
Nemmen fatta, aggiungiamo pure, ma il contatto con la gente, con la sua gente, Monni ha continuato a tenerlo vivo con massacranti tournée in giro per la Toscana, un menestrello impertinente che scherzando e ridendo non le manda a dire dietro a nessuno, ma proprio a nessuno. Un talento, quello dell’anziano menestrello, che folgorò anche Carmelo Bene (“il mio vero e unico maestro”), una parentesi tanto importante quanto costosa.
«Mi multava ogni volta che arrivavo tardi alle prove: più della metà dei compensi la spesi per pagare le sovvenzioni. Ma che avventura!».
Dopo di me il buio, disse Carmelo Bene. Monni, a proposito, tace, ma dei suoi eredi conterranei, non è che nutra grande stima.
«Gli ultimi toscani simpatici sono stati la coppia Paci-Ceccherini: Firenze, quanto ad ilarità, è al buio pesto da un bel po’ di tempo. Per fortuna, a tenere in piedi la leggenda di noi simpaticoni, ci pensa la nuova generazione, che però vive di là dall’Arno, nelle province di Pisa e Livorno. Quelli che passano ora dal convento mediatico sono delle vere e proprie nullità: non hanno storia, back ground, talento. Sono solo prodotti commestibili di questo odioso marketing: sono una razza inferiore che si alimenta di un pubblico sottosviluppato. Sono comici tristi, nel senso che fanno piangere».
Nonostante la temperatura non proprio estiva per un improvviso acquazzone pomeridiano, la gente, il suo Monni, non se l’è voluto perdere nemmeno questa volta. Lo show sta per cominciare e allora via: pantaloni lunghi al posto dei bermuda, una camicia a maniche corte anziché una fruit sbrindellata, ma senza togliersi i sandali.
«Fino a quando avrò voce e voglia, continuerò a salire sul palco. Quando mi sarò rotto del tutto i coglioni, me ne andrò a morire tra il Monte Morello e la Calvana: lo farò incrociando lo sguardo con quello di un cinghiale inferocito, augurandomi che sia una femmina”.

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[Sabato 2 luglio 2011]

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