Quando nel 1988 la giuria del La Pira mi assegnò il primo premio per la poesia, il mèntore della manifestazione del Centro Studi Donati fu, in una gremitissima Sala Maggiore del Comune di Pistoia, il grande Enzo Biagi.
Ricordo un significativo passaggio del suo discorso prima delle premiazioni.
Biagi affermò, con voce severa, che, nella sua lunga e ricca carriera di giornalista, aveva incontrato molte donne (in metafora, personaggi di ogni tipo), che definì «grandi signore o grandi baldracche», volendo individuare le due opposte categorie di gente per bene e gente per male, tanto per citare Battisti.
Questa piccola e apparentemente inutile premessa, mi serve per rendere onore al merito di un uomo che io non posso e non voglio dimenticare, e che è stato uno snodo nella mia vita; uno di quei crocevia che hanno e danno un senso ai luoghi, alle persone e alle cose: intendo Luciano Caramelli, il sindaco comunista di Quarrata, quello del dopo-Amadori; l’uomo che segnò il trapasso dalla Dc al Pci.
Di Luciano Caramelli, a Quarrata, non sento dire parola da anni; e i compagni dell’oggi, forse, non sanno più nemmen chi si fosse. Ma da persona e da cittadino di altra ispirazione politica, dico e sostengo con convinzione, che averlo dimenticato è un vero e proprio demerito non solo dei suoi, ma di tutti.
Luciano Caramelli era un duro, un po’ scorbutico, molto schivo. Ma sotto quel suo aspetto, che dava anche soggezione, c’era un uomo: uno vero, con sentimenti autentici e fortemente appassionati. E aggiungo anche, senza tema di smentita, con un alto e moralissimo sentire del bene e dell’interesse comune.
Quell’anno 1975, il 1° aprile, quasi come con un pesce, ero stato assunto in Comune. Mi avevano destinato alla Segreteria a fianco di Mario Giacomelli, il capufficio che mi ha insegnato un mucchio di cose, a cui spesso ancora ripenso con affetto e commozione. Mi avevano assegnato – quasi a mezzo servizio – a sbrigare in parte le mansioni meno ‘private’ della segreteria del sindaco Amadori, in parte quelle dell’ufficio del personale e del servizio-scuola e assistenza scolastica.
Cambiata amministrazione, dopo il 28 luglio 1975 il nuovo sindaco mi “fece fuori”, come si dice; e io finii per otto mesi dietro un armadio, a pianterreno, a girarmi le dita, insieme a colleghi i cui nomi forse non diranno più nulla a nessuno, ma che a me evocano, ancor oggi, memorie amichevoli e belle: Sergio Battaglia, Giovanni Maraviglia, Paolo Giacomelli, Lorenzo Pacini. Mi fu detto che l’amministrazione stava pensando a trovarmi un lavoro da svolgere: e mi lasciarono lì, in attesa…
Era, quello, un tempo di grandi contrapposizioni e di forti passioni. Ogni cosa era motivo di scontro.
E né io né Caramelli avevamo un buon carattere. Per niente. Sicché, di litigio in litigio, finimmo dinanzi al Pretore del lavoro.
In quegli anni non c’erano gli strumenti di oggi. Il mobbing era ancora di là da venire e ci dovemmo accontentare della Legge 300, lo Statuto del lavoratori, creatura grandiosa – ed oggi negletta – del socialista Brodolini.
Il scontro feroce si concluse con un accordo. Sicché io me ne andai per tre anni alla Uil, come segretario provinciale in distacco per gli Enti locali.
Quella separazione finì col ricostituire lentamente l’infranto rapporto e la stima reciproca.
Un pomeriggio del 1977 stavo passando a piedi fra il Comune e la Baracchina – quella demolita dalla giunta Sergio Gori –, quando si apre la porta laterale del Comune ed esce Luciano Caramelli.
Era solo. Ci scambiammo un saluto. Ma mentre stavo per continuare sui miei passi, lui uscì con un «Dottor Bianchini, venga; le offro un caffè».
Non ero stupito. Non lo ero affatto perché, come ho detto, i nostri rapporti si erano ristabiliti entro i limiti di una perfetta e condivisa civiltà.
Sorseggiammo il caffè parlando, come si dice, del più e del meno. Poi uscimmo. E lì, in mezzo alla piazzetta, dinanzi a nessuno, all’improvviso, Luciano Caramelli fu estremamente esplicito: «Senta, dottore – mi disse –, come amministrazione nuova e con idee nuove noi abbiamo bisogno di persone ben preparate e che sanno il fatto loro, che sanno lavorare e che hanno ottime capacità. In altre parole – aggiunse – noi saremmo molto felici se lei, che risponde a tutti questi requisiti, volesse tornare a lavorare su un posto del livello direttivo che le compete e le si adatta per la sua indiscussa professionalità».
Ammutolii. E credo che tutti avrebbero fatto lo stesso. Gli risposi che ci avrei pensato, perché quella sua proposta mi lasciava, al momento, un po’ stordito.
Con estrema gentilezza e con la sua voce profonda mi rispose di fare come ritenevo opportuno e aggiunse che, se avessi deciso per un sì, potevo presentarmi direttamente da Mario Giacomelli, capo della Segreteria, per parlare più concretamente e senza neppure tornare da lui.
Ci lasciammo. Io pensai. E ancora stupito, qualche giorno più tardi mi presentai da Mario e appena gli accennai la cosa, lui mi assicurò che il sindaco gli aveva già detto tutto disponendo di farmi, senza discutere, il posto del livello che avrei richiesto.
Non voglio aggiungere altro. Sarebbe inutile. Voglio invece ricordare, con ammirazione e rispetto, quel fiero avversario che mi offrì, seguendo una semplice valutazione meritocratica, il massimo di ciò che aveva senza nessun’altra richiesta se non il fatto di mettere la mia opera a disposizione del pubblico e dell’interesse comune.
Lo devo dire perché sono fermamente convinto che oggi questa stessa situazione non sarebbe possibile. E lo dico perché non posso non dare atto a Luciano Caramelli di essere stato duro, scorbutico e forse a volte intransigente: ma intellettualmente onesto, capace di ascoltare la gente, sindaco super partes, e pieno di quegli ideali che hanno fatto, della antica classe politica, un “animale raro e sacro” e una categoria del tutto estinta nel poverissimo panorama dell’oggi.
Onore al merito di quest’uomo che ha fatto Quarrata e che ha fatto per Quarrata. Quest’uomo di cui nessuno parla forse perché ai nani non piace mai rammentare i giganti.
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