INTERVENTO CONCLUSIVO
DEL CARD. GIUSEPPE BETORI
ARCIVESCOVO DI FIRENZE, 5 MAGGIO 2013
QUESTA SETTIMANA SOCIALE dei Cattolici Toscani si pone all’interno di un lungo,
articolato e ricco cammino, iniziato proprio qui a Pistoia nel settembre 1907,
con la celebrazione della Prima Settimana Sociale dei Cattolici Italiani,
voluta da Giuseppe Toniolo.
Giuseppe Toniolo, beatificato da
Benedetto XVI il 29 aprile 2012 – potremmo considerare questa Settimana Sociale
una celebrazione dell’anniversario della sua beatificazione! –, è una delle più
significative ed emblematiche figure di laico cattolico del nostro Paese e non
solo: impegnato nella comprensione rigorosa dei problemi senza mai separare questa
comprensione da una solida fede in Cristo, così come l’inventiva sociale e
culturale non viene in lui mai separata dalla fedele adesione alla Chiesa e al
suo magistero.
La prima Settimana Sociale dei
Cattolici Italiani, convocata con tematiche affini a quelle che in questi
giorni ci hanno riunito a Pistoia, aveva questo titolo: “Movimento cattolico e
azione sociale. Contratti di lavoro. Cooperazione. Organizzazione sindacale.
Scuola”. Essa fu aperta da un discorso dell’arcivescovo di Pisa, il cardinale
Pietro Maffi, che ne spiegava il significato e l’esigenza partendo dal brano
del Vangelo in cui viene narrata la moltiplicazione dei pani e dei pesci (Mt
14; Mc 6; Lu 9; Gv 6). Per il cardinale Maffi, i cattolici
sono chiamati tutti e personalmente alla moltiplicazione del pane «per
procurare ed assicurare a noi ed ai nostri fratelli il pane del corpo, il pane
della giustizia, il pane della carità, il pane della verità, il pane della
virtù, il pane infinito delle anime».
In queste parole, come nella stessa
figura del beato Toniolo, si può individuare con sufficiente chiarezza la
radice e il fine per cui sono state pensate le Settimane Sociali, e quindi anche
come un laico cattolico deve porsi nel suo operare nel mondo. La radice è il
rapporto con Gesù Cristo, percepito come il tutto della vita per chi in lui
crede e a lui affida la propria intera esistenza, perché questo rapporto ne
plasma l’identità complessiva, il pensare e l’agire. Il fine è l’uomo, colto
nella sua integralità, ed è il bene comune della società, fondato sulla verità,
la libertà, la giustizia e l’amore, cioè i valori fondamentali della
costruzione di un ordine sociale rispettoso della dignità della persona umana
secondo il Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa (n. 197). La
fede cristiana, infatti, per sua natura, è fermento di novità di vita per ogni
persona e, con essa e in conseguenza di essa, è fermento di rinnovamento di
ogni cultura e di una sempre nuova relazionalità sociale.
La Conferenza Episcopale Italiana, nel
ripristinare nel 1991 le Settimane Sociali, dopo un periodo di sospensione che
durava dal 1970, ne precisava l’obiettivo, affermando che esse «intendono
essere un’iniziativa culturale ed ecclesiale di alto profilo, capace di
affrontare e se possibile anticipare gli interrogativi e le sfide talvolta
radicali poste dall’attuale evoluzione della società. La Chiesa italiana in
questo spirito vuole non solo garantirsi uno strumento di ascolto e di ricerca,
ma anche offrire ai centri e agli istituti di cultura, agli studiosi e agli
operatori sociali, occasioni di confronto e di approfondimento su quel che sta
avvenendo e su quel che si deve fare per la crescita globale della società» (Ripristino
e rinnovamento delle Settimane Sociali dei Cattolici Italiani. Nota
pastorale, 20 novembre 1988, n. 5).
Ponendosi in tale ottica, anche questa
Settimana Sociale dei Cattolici Toscani va colta come un ulteriore e specifico
«strumento di ascolto e di ricerca» e «un’occasione di confronto e di
approfondimento», per meglio capire «quel che sta avvenendo» e «quel che si
deve fare» nel merito di alcune tematiche specifiche, in continuità con l’ultima
Settimana Sociale nazionale, celebrata nel 2010 a Reggio Calabria:
intraprendere nel lavoro e nell’impresa; educare per crescere; includere le
nuove presenze; slegare la mobilità sociale; completare la transizione
istituzionale.
Un sentito ringraziamento va, dunque, a
mons. Giovanni Santucci, vescovo delegato della Conferenza Episcopale Toscana
per le questioni sociali, e al Comitato Organizzatore per aver preparato questa
iniziativa. Altrettanto grati siamo a mons. Mansueto Bianchi e a tutta la
Chiesa di Pistoia, per averci accolto e aver assunto il peso dell’organizzazione
logistica. Grazie anche ai relatori, ai coordinatori delle commissioni di
lavoro, ai delegati delle diocesi toscane e ai rappresentanti delle
associazioni qui presenti, che in molti casi hanno si sono preparati a questo
appuntamento con un cammino lungo e approfondito.
A conclusione dei lavori di questa
Settimana Sociale, non possiamo non esprimere profonda gratitudine per il
contributo di riflessione e di elaborazione che viene offerto alla Conferenza
Episcopale, alle singole diocesi della Toscana e all’intera società regionale,
con l’Agenda di speranza per la Toscana.
Quest’Agenda va considerata
anzitutto un contributo che il laicato cattolico qui convenuto offre a tutti i
fedeli laici della Toscana, essendo essi chiamati in prima persona ad «assumere
il rinnovamento dell’ordine temporale come compito proprio e in esso, guidati
dalla luce del Vangelo e dal pensiero della Chiesa e mossi dalla carità
cristiana, operare direttamente e in modo concreto; come cittadini devono
cooperare con gli altri cittadini secondo la specifica competenza e sotto la
propria responsabilità; dappertutto e in ogni cosa devono cercare la giustizia
del regno di Dio» (CONC. ECUM. VATICANO II, Decr. Apostolicam actuositatem,
n. 7).
La necessità di spendersi per
rigenerare comunità è una delle priorità del nostro tempo, in quanto, come
sottolineano i vescovi italiani negli Orientamenti pastorali per il decennio,
«l’attuale dinamica sociale appare segnata da una forte tendenza
individualistica che svaluta la dimensione sociale, fino a ridurla a una
costrizione necessaria e a un prezzo da pagare per ottenere un risultato
vantaggioso per il proprio interesse. Nella visione cristiana [invece] l’uomo
non si realizza da solo, ma grazie alla collaborazione con gli altri e
ricercando il bene comune. Per questo appare necessaria una seria educazione
alla socialità e alla cittadinanza, mediante un’ampia diffusione dei principi
della dottrina sociale della Chiesa» (Educare alia vita buona del Vangelo.
Orientamenti pastorali dell’episcopato italiano per il decennio 2010-2020, n.
54).
Proprio all’educazione, posta dall’episcopato
italiano come priorità del decennio, ritengo sia necessario rivolgere una
particolare attenzione, curandola con più organicità e determinazione, a
partire certamente dall’educazione alla fede e alla sua dimensione comunitaria,
ma anche in vista di un nuovo protagonismo dei cattolici nella vita sociale e
politica.
Cogliendo la differenza e lo stretto
rapporto che esiste tra l’educazione come percorso complessivo e la formazione
a un ambito particolare, prima e a fondamento degli approfondimenti specifici –
come può essere, ad esempio, un percorso formativo in campo sociopolitico o
economico –, i cattolici sono chiamati ad assumere come costante della loro
vita l’educazione alla fede, perché l’essere cristiani non è, né può mai
essere, scelta e pratica privata, individuale, bensì anima e matrice di
civiltà, di relazione, di comunità. Soprattutto, questo primato dell’educazione
alla fede è richiesto dalle condizioni culturali e religiose dei tempi che
viviamo, nei quali, come ha scritto Benedetto XVI, nell’indire l’Anno della
fede, «capita ormai non di rado che i cristiani si diano maggior preoccupazione
per le conseguenze sociali, culturali e politiche del loro impegno, continuando
a pensare alla fede come un presupposto ovvio del vivere comune. In effetti,
questo presupposto non solo non è più tale, ma spesso viene perfino negato»
(Lett. ap. Porta fidei, 11 ottobre 2011, n. 2). Per questo occorre
ribadire come alla base di ogni impegno sociale dei cristiani debba esserci – e
sono ancora parole di Benedetto XVI – «un’autentica e rinnovata conversione al
Signore, unico Salvatore del mondo» (Ivi, n. 6).
Ecco perché non basta sentire l’esigenza
di una rinnovata presenza e di un più puntuale e creativo protagonismo del
laicato cattolico, per far sì che questa presenza risulti significativa e
incisiva, superando la situazione di pratica irrilevanza culturale e di diffusa
“afonia” nella costruzione della polis, che si registra ormai da tempo e che
non può essere colmata da semplici tentativi di aggregazione partitica. Occorre
che tale impegno sia fondato su una salda coscienza di fede.
I cattolici hanno contribuito in modo
essenziale alla storia del nostro Paese. Basti pensare al prezioso apporto
offerto alla stesura della Costituzione repubblicana. I cattolici tanto hanno
dato, ma tanto ancora possono dare in questa particolare stagione della vita
del Paese, chiamato ad affrontare riforme di grande portata e fortemente
bisognoso di un pensiero culturale alto e di una politica di energico spessore.
Tanto hanno dato e tanto possono e debbono dare alla vitalità delle nostre
città e di questa nostra regione.
Per essere protagonisti della vita
sociale e politica, con una presenza che nei fatti – circolazione delle idee e
determinazione delle scelte – apporti un valore aggiunto qualificato e divenga
generatrice di cultura, è necessario riscoprire la fecondità del Vangelo per la
vita quotidiana, personale e comunitaria, nella certezza che il Vangelo
illumina il nostro cammino nel mondo, conduce alla radice delle questioni,
orienta le scelte che si è chiamati a compiere. In questo consiste una visione
piena della fede.
Per questo, nell’attuale fase storica,
occorre anzitutto «ravvivare una fede che fondi un nuovo umanesimo capace di
generare cultura e impegno sociale» (BENEDETTO XVI, Omelia alla Celebrazione
dei Vespri e Te Deum di ringraziamento per l’anno trascorso, 31
dicembre 2011 ).
Nel fondare questo nuovo umanesimo, la
Chiesa Toscana, tutti i fedeli laici e l’intera società civile e politica della
regione, in ragione della loro stessa storia, non possono non trovarsi in prima
linea. Non possiamo dimenticare come gli inizi dell’umanesimo moderno siano
intrecciati profondamente con la visione di fede della vita e della storia e,
se successivamente, le istanze umanistiche diventarono sinonimo di distacco
dalla fede, ciò non appartiene alle sue più autentiche sorgenti. Dobbiamo
chiederci se oggi proprio a noi non spetti riprendere le fila di quel tessuto
originario e condurre a più piena realizzazione quella che il grande teologo
Henri de Lubac definì l’alba incompiuta del Rinascimento.
Per fondare un nuovo umanesimo è
necessario porre l’uomo – e l’uomo nella pienezza della sua identità, nella sua
unità corporeo-spirituale e quindi nella sua apertura al trascendente – al
centro, come cifra di tutte le questioni. Del resto, ha ricordato Benedetto
XVI, la stessa «questione sociale», colta nella sua sorgente e nei sui effetti,
«è diventata radicalmente questione antropologica» (Lett. enc. Caritas in
veritate, n. 75).
Per contribuire a fondare un nuovo
umanesimo, dobbiamo saper voltare pagina, abbandonando timori e incrostazioni
ideologiche che di fatto impediscono di porsi nei confronti del mondo con
quella parresìa che ha caratterizzato la predicazione degli apostoli e di
assumere la piena consapevolezza che, come ci ha detto Papa Francesco, «la
grazia contenuta nei Sacramenti pasquali è un potenziale di rinnovamento enorme
per l’esistenza personale, per la vita delle famiglie, per le relazioni
sociali. [...] Questo è il potere della grazia. Senza la grazia non possiamo
nulla»
(Regina coeli, 1° aprile 2013).
Per tornare ad essere significativi
nella vita sociale e politica è altresì necessario che i cattolici, osino di
più nel loro quotidiano operare, elaborando proposte e assumendo impegni e
responsabilità chiare e coerenti, misurandosi con i problemi reali, riscoprendo
la fatica del confronto, valorizzando l’autentica autonomia delle realtà
terrene senza abdicare alla specificità cristiana, che sa incarnare i valori
perenni nella mutevolezza dei problemi concreti, concorrendo a «produrre un
nuovo pensiero», a «esprimere nuove energie» (BENEDETTO XVI, Lett. enc. Caritas
in veritate, n. 78), a intraprendere un «discernimento» caratterizzato da
«realismo» (Ivi, n. 21), a immaginare «soluzioni nuove» (Ivi, n.
32).
Con le parole di Papa Francesco,
potremmo dire che si tratta di affrontare le situazioni sapendo che siamo
chiamati ad essere custodi delle persone e delle cose: «Giuseppe è “custode”,
perché sa ascoltare Dio, si lascia guidare dalla sua volontà, e proprio per
questo è ancora più sensibile alle persone che gli sono affidate, sa leggere
con realismo gli avvenimenti, è attento a ciò che lo circonda, e sa prendere le
decisioni più sagge. [...] Vorrei chiedere, per favore, a tutti coloro che
occupano ruoli di responsabilità in ambito economico, politico o sociale, a
tutti gli uomini e le donne di buona volontà: siamo “custodi” della creazione,
del disegno di Dio iscritto nella natura, custodi dell’altro, dell’ambiente;
non lasciamo che segni di distruzione e di morte accompagnino il cammino di
questo nostro mondo! Ma per “custodire” dobbiamo anche avere cura di noi
stessi! Ricordiamo che l’odio, l’invidia, la superbia sporcano la vita!
Custodire vuol dire allora vigilare sui nostri sentimenti, sul nostro cuore,
perché è proprio da lì che escono le intenzioni buone e cattive: quelle che
costruiscono e quelle che distruggono! Non dobbiamo avere paura della bontà,
anzi neanche della tenerezza!» (Omelia alla Messa per l’inizio del ministero
petrino del Vescovo di Roma, 19 marzo 2013)».
Al termine di queste giornate viene
consegnata alla Chiesa e alla società toscana un’Agenda. Con il termine
Agenda non si è mai inteso né si intende indicare un programma politico,
compito proprio di specifiche formazioni sociali, ma semplicemente porre all’attenzione
– e questo ha indubbia rilevanza politica – tematiche ritenute essenziali per l’intera
comunità, richiamando la concretezza degli obiettivi che ci si pongono e l’aderenza
alla realtà.
Non entro nel merito delle proposte
avanzate con l’Agenda di speranza per la Toscana, ma, proprio per
quanto detto fino ad ora, ritengo che ogni tematica proposta, così come ogni
ambito dell’umano, si debba leggere e affrontare ponendo al centro l’uomo e
ricercando una nuova e più elevata sintesi culturale, nella quale i diversi
apporti dell’esperienza umana trovino spazio coordinandosi tra loro nella
varietà e siano aperti alla trascendenza. Questo vale in modo particolare per
le due grandi questioni che, intrecciandosi tra loro, costituiscono lo snodo
del futuro della nostra società: il lavoro e la famiglia.
Difendere il lavoro significa porre al
centro la persona che lavora, la sua dignità, il senso e la qualità della sua
vita, l’esercizio quotidiano della sua relazione con gli altri. Il lavoro va
posto al centro del vivere sociale ed economico, non solo perché fonte di
reddito per le persone e le famiglie, ma perché non può essere ridotto a «una
variabile dipendente dei meccanismi economici e finanziari», essendo piuttosto
elemento costitutivo della dignità dell’uomo e quindi da riconoscere quale
«bene fondamentale per la persona, la famiglia, la società» (BENEDETTO XVI, Messaggio
per la Giornata Mondiale della Pace 1° gennaio 2013, n. 4).
Come ha affermato recentemente anche
Papa Francesco, «il lavoro è un elemento fondamentale per la dignità di una
persona. Il lavoro, per usare un’immagine, ci “unge” di dignità, ci riempie di
dignità; ci rende simili a Dio, che ha lavorato e lavora, agisce sempre (cfr Gv
5,17); dà la capacità di mantenere se stessi, la propria famiglia, di
contribuire alla crescita della propria Nazione» (Discorso all’ Udienza
generale, 10 maggio 2013).
Il Documento preparatorio per la
47.a Settimana Sociale di Torino, ricorda che «il lavoro non è solo un “fare”:
la dimensione soggettiva del lavoro rende ogni lavoro dignitoso, perché è
espressione della persona che, anche col suo “fare”, risponde con la sua
libertà alle circostanze in cui si trova. Nella radice del fare, poi, non è
implicita una mera esecuzione, ma una capacità inventiva e creativa che rende
il fare (poiein) parente della poesia. Lavorare è bene, è una cosa buona
anche se è difficile (bonum arduum). Ogni lavoratore è, a suo modo, un
imprenditore». E lo stesso Documento ribadisce che «l’impresa
economica è una comunità di persone; nella sua essenza, è fatta dalle
persone e per le persone. Se questo non si riscontra nella realtà, è perché la
gerarchia logica si è capovolta: non si riconosce la priorità logica del lavoro
sul capitale, il quale non può che
essere frutto del lavoro» (n. 20).
Purché poi il profitto dell’incrocio tra capitale e lavoro non vada a
costituire una rendita, ma diventi da una parte il giusto reddito e dall’altra
lo strumento di nuova impresa.
La persona umana, quale pilastro
fondamentale della società, è centro, vertice e fine di tutte le istituzioni
sociali. È la persona il soggetto che deve assumersi il dovere dello sviluppo
sociale e al tempo stesso è la risorsa fondamentale che lo rende possibile; non
il denaro o la tecnica o la finanza, che sono strumenti e, come tali, vanno
mantenuti nell’ordine dei mezzi senza mai essere scambiati con i fini. Solo
ponendo al centro il lavoro, e quindi la persona, l’economia può davvero
rimettersi in marcia e lo sviluppo essere di segno positivo. Di qui il rifiuto
del primato della rendita nella vita economica e il vedere nel profitto, che
scaturisce da una impresa condotta secondo criteri di giustizia, da una parte
il giusto reddito e dall’altra lo strumento di nuova impresa.
In questa particolare contingenza
storica, caratterizzata da un numero sempre maggiore di persone e famiglie che
vive la drammaticità della perdita di lavoro e del non trovare gli spazi per
inserirsi nel mondo del lavoro, gli spazi per intraprendere, facciamo nostre in
questa sede le parole di Papa Francesco nello scorso Primo Maggio: «Desidero
rivolgere a tutti l’invito alla solidarietà, e ai responsabili della cosa
pubblica l’incoraggiamento a fare ogni sforzo per dare nuovo slancio all’occupazione;
questo significa preoccuparsi per la dignità della persona; ma soprattutto
vorrei dire di non perdere la speranza... nella certezza che Dio non ci
abbandona» (Discorso all’Udienza generale, 1° maggio 2013).
Mettere al centro la persona, offre un
solido punto di riferimento e apre una via larga anche nell’affrontare il tema
che sarà posto al centro delle prossima Settimana Sociale nazionale di Torino: “La
famiglia, speranza e futuro per la società italiana”.
Se guardata mettendo al centro la
persona, la famiglia, fondata sul matrimonio fra un uomo e una donna, appare
naturalmente per ciò che essa è: prima e vitale cellula della società, che
possiede una specifica e originaria dimensione sociale. «Nella prospettiva
della ricerca continua del bene comune, il tema della famiglia appare quanto
mai importante: tocca i nodi antropologici essenziali per il futuro della
persona umana; costituisce un pilastro fondamentale per costruire una società
civile davvero libera, a cominciare dalla libertà religiosa e da quella
educativa; è dunque condizione fondamentale per una società dove i diritti di
tutti siano realmente rispettati. Il ‘favor famliae’, sancito dalla
legge dello Stato fin dal suo livello costituzionale, non è in contrasto ma
diventa garanzia anche per i diritti individuali» (Lettera Invito alla 47.a
Settimana Sociale, 13 febbraio 2013, n. 2).
Nel tempo, pur breve, che ci separa
dalla Settimana Sociale di Torino (12-15 Settembre 2013), ritengo che tutto il
laicato cattolico, a tutti i livelli e in tutte le sue aggregazioni, debba
porre all’ordine del giorno del proprio cammino una riflessione seria su e per
la famiglia, vista non come tematica interna alla Chiesa, ma come questione che
interessa tutta la società, essendo questione eminentemente antropologica e
sociale. Nella e con la famiglia, infatti, si fa chiara la visione di uomo che
portiamo dietro di noi, visto come individuo oppure come persona, da cui poi
deriva il ruolo che la società assegna alla famiglia e il rapporto fra famiglia
stessa e società.
«Nel nostro sistema, il primato
costituzionale della famiglia va messo in parallelo con quello riconosciuto al
lavoro dal primo articolo della Carta costituzionale. La famiglia umanizza non
solo la società, ma anche il lavoro. All’art. 36 si afferma che “il lavoratore
ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo
lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza
libera e dignitosa”. Il lavoro non è quindi concepito in senso
individualistico, ma come svolto da una persona che vive in una famiglia. La
Costituzione ci ricorda in tal modo che famiglia e lavoro devono essere
protetti allo stesso titolo: garantire l’esistenza e la qualità del lavoro
significa assicurare libertà e dignità alla famiglia che tramite esso vive e
cresce. (Documento preparatorio per la 47.a Settimana Sociale di Torino,
n 12).
Lo sguardo alle due realtà del lavoro e
della famiglia costituisce l’orizzonte in cui si pone la questione dei giovani
nella nostra società. Occorre legare di più momenti formativi e esperienza di
lavoro nella vita sociale, dando spazio alle nuove generazioni. Occorre
accrescere gli spazi di reciprocità, con un’attenzione speciale alle forme di
cooperazione, con cui sviluppare modi comunitari con cui gestire i beni.
Occorre legare maggiormente le forme del nostro intraprendere al territorio e
alla sua storia peculiare. Occorre aprirsi a stili di vita meno legati a
modelli consumistici e più indirizzati a forme di gratuità e di socialità. Il
tema di una società più fraterna dovrebbe essere messo all’ordine del giorno
con maggiore convinzione, per superare schemi ormai logori di competizione e di
antagonismo sociale. E qui si toma al punto iniziale della mia riflessione,
alla contrapposizione tra individuo e persona, all’autonomia asfittica e
impossibile di singoli e gruppi o alla relazione liberante in cui ci si
accompagna nella condivisione della speranza. A questo parametro umanistico da
ribaltare siamo tutti richiamati e da qui inizia il nostro impegno.
Cliccare sull’immagine per ingrandirla.
Foto di Luigi Scardigli.
[Domenica 5 maggio 2013 | 13:19 - © Quarrata/news]
Nessun commento:
Posta un commento
MODERAZIONE DEI COMMENTI
Per evitare l’inserimento di spam e improprie intromissioni, siamo costretti, da oggi 14 febbraio 2013, a introdurre la moderazione dei commenti.
Siamo dispiaciuti per i nostri lettori, ma tutto ciò che scriveranno sarà pubblicato solo dopo una verifica che escluda qualsiasi implicazione di carattere offensivo e penale nei loro interventi.
Grazie.