domenica 25 settembre 2011

L’ACCEZIONE MENO GRADITA DELLA PAROLA ‘FINE’

di Luigi Scardigli


Il filtro mediatico della storia di Piergiorgio Welby ci ha fatto perdere di vista alcuni aspetti, fondamentali, della sua scelta, letteralmente massacrata da interventisti e neutralisti che si sono accaniti sui e contro i suoi diritti durante i mesi d’agonia che hanno preceduto il giusto, decoroso, rispettabilissimo e sano e giusto stacco della spina.
Ieri pomeriggio però, sul palco del teatro Manzoni, rimasto così com’era dal giorno della presentazione ufficiale della stagione che verrà, Dora Donarelli – una donna che non sarà mai un’ex, soprattutto quando si spengono le luci e si accende un occhio di bue, ma non solo: anche quando le luci si spengono del tutto – accompagnata dai disturbi melodici di Carlo Martinelli e alla compartecipata emozione della sorella di Piergiorgio, Mina Welby, ci ha reso, attraverso la lettura di alcuni stralci di Ocean Terminal, il nostro Piergiorgio Welby, quello che io personalmente, ad esempio, non conoscevo, ma che desideravo ardentemente che esistesse.
Bene, leggetelo il quaderno di appunti che Piergiorgio Welby ha avuto la forza, il coraggio e la voglia di annotare – Ocean Terminal, appunto – e scoprirete, come è successo a me ieri, che anche questo fenomeno da battaglie legali vinte/perse si è avvicinato e accasato alla morte con una disperazione e un ringraziamento alla vita straordinari, che sono quelli che appartengono, probabilmente, ad ognuno di noi, incapaci di cogliere l’essenza perché distratti da foghe anomale e fuorvianti, che altro non fanno che ridurre i tempi del piacere, accelerare la corsa verso l’abisso e dare a quest’ultimo l’accezione meno gradita della parola fine.
La lettura è iniziata così, un’estrazione idealtipica dell’intera raccolta, che è anche il quarto di copertina del libro.
«Chi sono? Un superstite? Dovrei recuperare il lessico infantile e restituire un senso compiuto anche a questi balbettii. Dovrei accartocciarmi, come una foglia di magnolia, e attendere che il maestrale, rotolando sulla brina della notte, mi spazzi via trascinandomi sulla ghiaia, fino all’angolo buio del cancello in ferro battuto che separa il mio guscio d’avorio dalla strada. Dovrei riappropriarmi del mio corpo, delle passioni, come la vergogna e l’ira, per poter piangere e ridere, cercare il limite del dolore smarrito tra il sambuco e le acacie. Dovrei rispondere al fischio che sveglia il pomeriggio di pulviscoli galleggianti sulle scie luminose che tagliano l’incubo della stanza. Dovrei prendere gli scarpini e la Bianchi e pedalare, senza prendere fiato fino al campetto della stazione, sudare, urlare, spingere, bestemmiare e colpire il pallone con il collo del piede … come dicevi tu, papà».

Cliccare sull’immagine per ingrandirla.
[Domenica 25 settembre 2011– © Quarrata/news 2011]

1 commento:

  1. Superato il dolore rabbioso della vita senza vita, si attende con ansia, la morte....che ci libera dall'inferno del male

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