di Luigi Scardigli
Pensava,
buona parte del pubblico del Manzoni, ieri sera, che con La lampadina galleggiante (si replica stasera e domenica
pomeriggio) – idea di Woody Allen riadattata per il teatro da Armando Pugliese –,
la maggior parte del tempo dello spettacolo sarebbe stato occupato dalle
risate. Valutazione e previsione non deontologicamente corrette, perché di
questa famiglia americana fotografata all’indomani della seconda guerra
mondiale c’è veramente ben poco da ridere.
Il padre,
Fulvio Falzarano, è un povero fallito perennemente alla caccia del numero da
indovinare alla lotteria per sbancare lunario e frustrazioni, che indossa
puntualmente la pistola, prima di uscire di casa: la porta con sé per difendersi
– dice alla moglie e ai figli – ma in realtà è un modo per evitare eventuali
agguati degli strozzini che lo perseguitano e soprattutto per riuscire ad
esercitare fatali attrazioni sulla giovane amante, la ragazza (Barbara
Giordano) che sogna di sopravvivere senza lavorare, preferibilmente, e in
Florida, se possibile.
La madre,
un’affascinante Mariangela D’Abbraccio, bella e distrattamente sensuale,
volutamente calda e per caso materna, inevitabilmente tragica e ironica,
perennemente semiseria, è un’ex giovane cantante e ballerina piena di sogni e
speranze che ha risposto tutte le proprie aspettative nel matrimonio,
rimanendone schiacciata, disillusa, tradita e fregata, alle prese quotidiane
con il figlio maggiore (un bravissimo Emanuele Sgroi) che sogna di diventare un
mago, ma che non riesce a superare la balbuzie e la timidezza e quello minore
(un giovanissimo e promettente Luca Buccarello) che somiglia molto al padre,
indisponente e scanzonato oltre ogni ragionevole dubbio, che sembra, nonostante
la giovanissima età, sapere quasi tutto della vita.
In questa
tristezza routinaria, entra ed esce di scena esasperando la fragilità e la tristezza
di tutti i componenti della famiglia, in cerca di personalità, più che
d’autore, Mimmo Mancini, l’agente artistico dei commedianti e degli attori di
terzo livello, che per un attimo, affogando l’ulcera in due brandy, sfodera
un’inimmaginabile carica da inguaribile tombeur
de femme, per poi riporla, immediatamente, nella faretra prudentemente ed
edipicamente consegnatagli dalla vecchia madre, con la quale andrà ad
invecchiare nella secca Arizona.
Certo, la
scena è concretamente tragicomica, alleniana in quasi ogni suo riferimento, ma ogni
altra componente prende decisamente il sopravvento su quella onirica, grazie
all’altalenante ottimismo/pessimismo della D’Abbraccio, che vorrebbe in tutti i
modi affrancare la propria frustrazione e abbandonare la propria miseria
delegando alla vena artistica del figlio le armi della rivalsa, un’onerosa e
insopportabile velleità dalla quale lo straordinario Paul (Emanuele Sgroi) si
lascia fatalmente e inesorabilmente schiacciare e ridicolizzare.
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[Sabato 11 febbraio 2012 – © Quarrata/news 2011]
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