PISTOIA. Oggi, domenica 15 maggio, Martina Vacca ci presenta il ritratto del vescovo Bianchi e ce ne illustra interessi e pensieri.
Confessiamo che abbiamo letto tutto d’un fiato sperando di trovare non solo le cose più ovvie e scontate che possano riguardare un vescovo, ma anche qualcosa di più serio e interessante; di più cristianamente impegnato e rilevante.
E invece abbiamo scoperto che cena con le sue suore e di tanto in tanto mangia una pizza con gli amici. Semplicità evangelica, non c’è che dire, ma davvero un po’ poco per conoscere un uomo.
E di tutti i massimi sistemi che interessano la sua diocesi, tipo l’Aias, monsignor Bianchi che ne pensa? Perché non ce lo dice e non fa, anche lui, evangelica chiarezza delle sue posizioni? Così, tanto per aiutare la gente che dichiara di aver sempre voluto aiutare.
Ah, scusateci… Non è sua colpa. È colpa dei giornalisti che certe domande non le fanno mai, specie se i servizi sono finalizzati a realizzare quelle galerie di quadretti idilliaco-dolcificati che andavano tanto di moda ai tempi del Cavalier Giambattista Marino e del suo Adone, nel 1600 della retorica…
Q/n
* * *
Amici, famiglia e semplicità
Le confessioni del vescovo
Da prete di campagna a monsignore:
«Volevo aiutare la gente»
Difficile riuscire a vivere una dimensione privata tra gli affreschi e i velluti del Seminario Vescovile. Il primo a dirlo è proprio lui, Monsignor Mansueto Bianchi, che incontriamo in uno studio rosso porpora, al secondo piano del palazzo di via Puccini.
Una confessione candida, quella che ci concede il vescovo, ma che mette tutti subito a proprio agio, perché quando ci si trova di fronte a uomini di tale spessore culturale e umano riesce difficile immaginare che abbiano avuto una vita simile alla nostra. Eppure la storia di monsignor Bianchi, tutt’altro che comune, per alcuni versi non è dissimile a quella di tanti ragazzi e poi uomini cresciuti nei borghi toscani. «Sono nato a Santa Maria in Colle, borgo vicino a Lucca – racconta Monsignore – mia madre Bruna faceva l’operaia alla Manifattura Tabacchi di Lucca, mio padre Emilio ha fatto tanti mestieri, dal contadino al barista. Io sono cresciuto in paese fino a 11 anni, quando ho scelto di entrare in Seminario, per seguire un desiderio che avevo dentro da sempre. All’inizio la mia famiglia non la prese bene: non era facile per i miei genitori rinunciare al loro unico figlio, ma io avevo le idee chiare. Quando ero piccolo ricordo che gli anziani del paese mi chiedevano cosa volessi fare da grande: io rispondevo ‘o il medico o il prete’. Il che non stupisce se si pensa al ruolo sociale che avevano prima i medici di paese». Ed è proprio questo lo spirito con cui Monsignor Bianchi, a soli 11 anni, aveva già chiara in mente la sua strada: l’obiettivo era incontrare le persone nel senso di andare loro incontro. «Devo molto ai miei perché hanno saputo fare un passo indietro, per farmi vivere la mia scelta: venivano a trovarmi in bicicletta nelle ore consentite».
Poi la vita ha fatto il suo corso, gli anni in seminario, i voti e poi la lunga esperienza di parroco di campagna, la realizzazione della sua missione. La prova più dura? Forse proprio la nomina a vescovo (prima a Volterra e poi a Pistoia). «La mia giornata è piena di impegni – racconta Monsignor Bianchi – Visite alle parrocchie, incontri, oltre ai frequenti impegni romani (il vescovo è anche Presidente della Commissione per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso) ma è cambiato il modo in cui la gente viene da me. Le persone ora mi vedono nel mio ruolo». Certo ci sono gli amici dell’infanzia e della giovinezza, le famiglie che lo aspettano ad Arliano dove torna spesso. «Il piacere più grande è andare a mangiare una pizza tra amici».
In casa, ad accudirlo, ci sono alcune suore della congregazione brasiliana, che lo hanno seguito da Volterra e con cui cena tutte le sere. «L’importante nell’affrontare le gioie e le pene quotidiane – dice il Vescovo – è usare un pizzico di humor, come i coriandoli del carnevale che mi ricordano la mia infanzia».
Una confessione candida, quella che ci concede il vescovo, ma che mette tutti subito a proprio agio, perché quando ci si trova di fronte a uomini di tale spessore culturale e umano riesce difficile immaginare che abbiano avuto una vita simile alla nostra. Eppure la storia di monsignor Bianchi, tutt’altro che comune, per alcuni versi non è dissimile a quella di tanti ragazzi e poi uomini cresciuti nei borghi toscani. «Sono nato a Santa Maria in Colle, borgo vicino a Lucca – racconta Monsignore – mia madre Bruna faceva l’operaia alla Manifattura Tabacchi di Lucca, mio padre Emilio ha fatto tanti mestieri, dal contadino al barista. Io sono cresciuto in paese fino a 11 anni, quando ho scelto di entrare in Seminario, per seguire un desiderio che avevo dentro da sempre. All’inizio la mia famiglia non la prese bene: non era facile per i miei genitori rinunciare al loro unico figlio, ma io avevo le idee chiare. Quando ero piccolo ricordo che gli anziani del paese mi chiedevano cosa volessi fare da grande: io rispondevo ‘o il medico o il prete’. Il che non stupisce se si pensa al ruolo sociale che avevano prima i medici di paese». Ed è proprio questo lo spirito con cui Monsignor Bianchi, a soli 11 anni, aveva già chiara in mente la sua strada: l’obiettivo era incontrare le persone nel senso di andare loro incontro. «Devo molto ai miei perché hanno saputo fare un passo indietro, per farmi vivere la mia scelta: venivano a trovarmi in bicicletta nelle ore consentite».
Poi la vita ha fatto il suo corso, gli anni in seminario, i voti e poi la lunga esperienza di parroco di campagna, la realizzazione della sua missione. La prova più dura? Forse proprio la nomina a vescovo (prima a Volterra e poi a Pistoia). «La mia giornata è piena di impegni – racconta Monsignor Bianchi – Visite alle parrocchie, incontri, oltre ai frequenti impegni romani (il vescovo è anche Presidente della Commissione per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso) ma è cambiato il modo in cui la gente viene da me. Le persone ora mi vedono nel mio ruolo». Certo ci sono gli amici dell’infanzia e della giovinezza, le famiglie che lo aspettano ad Arliano dove torna spesso. «Il piacere più grande è andare a mangiare una pizza tra amici».
In casa, ad accudirlo, ci sono alcune suore della congregazione brasiliana, che lo hanno seguito da Volterra e con cui cena tutte le sere. «L’importante nell’affrontare le gioie e le pene quotidiane – dice il Vescovo – è usare un pizzico di humor, come i coriandoli del carnevale che mi ricordano la mia infanzia».
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[Domenica 15 maggio 2011]
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