di LORENZO CRISTOFANI
Non bastano le centinaia di migliaia di
euro che la Fondazione Caripit usa per realizzare gli effimeri ‘Dialoghi
sull’Uomo’ – Dall’arazzo millefiori ai malmessi chiostri che cadano a pezzi,
una galleria di beni assolutamente non sfruttati a dovere
PISTOIA. Talvolta, anzi spesso, di fronte a licenziamenti a pioggia
e ad una decrescita tutt’altro che felice, capita di non avere molti argomenti
da contrapporre alla vulgata per cui con
la cultura non si mangia o che la
cultura è un lusso che non ci possiamo permettere nei periodi difficili di
crisi economica.
Tuttavia si dovrebbe esaminare,
volta volta e caso per caso, la reale situazione delle risorse dedicate ad
attività culturali, come vengono spese e soprattutto cosa producono.
Prendiamo la realtà pistoiese, che è
sott gli occhi di tutti e che tutti possono valutare attentamente: proviamo ad
esaminare in particolar modo il ruolo della Fondazione Caripit, l’ente che
maggiormente investe, per statuto e tradizione, nel settore di arte e cultura.
Da un lato è grazie alla Fondazione
che sono stati possibili, solo per fare qualche esempio, i restauri e
risanamenti della chiesa del Carmine e dell’oratorio del SS. Crocifisso. Per
non citare la pubblicazione della pregevole rivista Storialocale.
In generale i principi fondamentali
dovrebbero essere quello della valorizzazione dell’esistente – e siamo nel caso
del recupero del patrimonio – e quello di consolidare meccanismi
virtuosi che possano radicarsi, e alimentare un sistema continuativo e non
siano cioè episodi-spot o fine a se stessi.
In altre parole la sfida delle
risorse impiegate nella cultura dovrebbe mirare a movimentare le energie
locali, creando ricadute misurabili e percepibili sul territorio. In questo
senso si può ritenere che i Dialoghi sull’Uomo,
350mila euro di spesa complessiva, rappresentino certamente un momento di
visibilità per Pistoia, ma solo quello: la strategia adeguata per arricchire
strutturalmente il tessuto sociale pistoiese, al netto dei nomi roboanti dei
relatori della tre giorni di Kermesse e del tutto esaurito nei
ristoranti, non è certo l’evento cerimonioso ed estemporaneo.
Per fare programmazione della
cultura serve una cultura della programmazione, interdisciplinare e che faccia
dialogare i diversi livelli istituzionali.
Arazzo millefiori |
Le centinaia di migliaia di euro che
la Fondazione usa per realizzare gli effimeri Dialoghi sull’Uomo potrebbero essere impegnati per una reale e
seria crescita culturale, intesa anche come valorizzazione del patrimonio
artistico locale, una ricchezza che colloca Pistoia tra i principali centri d’eccellenza
italiani ma che non viene promossa come sarebbe naturale in una qualsiasi altra
città.
Pensiamo ai chiostri, tra quelli
restaurati e quelli in decadenza (come quello di San Giovanni Forcivitas, qui nella
foto), all’arazzo millefiori – un’opera tessile unica e da primato, che
potrebbe, da sola, essere un logo assoluto di richiamo – e ai pulpiti che fecero stupire Ruskin e con lui tutta l’Europa.
Pensiamo alle mura in decadenza – sorridendo dei fantomatici gruppi di studio
della SPSP – quando a Lucca l’intera città ci ha costruito dei veri e propri
eventi permanenti, alla fortezza Santa Barbara, alle cannoniere
del bastione Thyrion e ai rotabili storici.
Insomma, basterebbe adottare una
mentalità un pochino più vivace, comprendendo che investire opportunamente in
questi settori permette non solo di rendere consapevoli e partecipi e
protagonisti i cittadini delle loro risorse, ma anche di creare, eventualmente,
un indotto occupazionale autonomo che si autosostiene senza assistenzialismo.
Si creerebbero le condizioni per
aumentare sensibilmente il turismo – si badi bene, non quello massivo e
banalizzante di tipo fast food – e razionalizzare anche, in generale, l’offerta museale.
Si tornerà comunque più avanti sulla
vicenda dell’arazzo millefiori gelosamente tenuto prigioniero dal Capitolo
della Cattedrale di San Zeno – ente su cui è doveroso spendere una franca
riflessione – così come si dovrà, da organo di informazione attento anche
alle particolarità, iniziare a fare un ragionamento sui palazzi monumentali del
700 Illustre (fruibili a volte nelle
giornate del FAI), simbolo della sintesi di alto
livello della classe dirigente pistoiese di allora, quando cioè la richezza
si traduceva in gusto raffinato e non in devastazione del patrimonio (cortile
del palazzo Buontalenti/Sozzifanti e giardino della canonica di San Biagino)
come adesso.
In definitiva si vuole ribadire che esistono modelli virtuosi di gestione
di risorse destinate alla cultura ma in un proficuo rapporto col territorio:
basti vedere la Fondazione CAB di
Brescia o la Fondazione Roma. Enti, queste ultime,
che non prevedono e non hanno peraltro mai previsto finanziamenti in
discutibili e anomali – per una fondazione – settori d’intervento come l’aula liturgica (incompiuta) del santuario di
Valdibrana (quando poi quel gioiello barocco della SS. Annunziata cade a pezzi
ed è inagibile… nonostante fosse stata segnalata da tempo la condizione di
criticità !) o in pregevoli fontane di Buren (500mila euro di mecenatismo… coi
soldi altrui, però).
Per concludere, riprendendo il punto di partenza, se spesso capita di non cogliere
l’importanza delle risorse investite in cultura, ciò si deve anche alle logiche
che avvantaggiano iniziative sterili e autoreferenziali come Dialoghi sull’Uomo a scapito del rafforzamento del legame fra la storia culturale della città e il futuro della stessa.
Quale è, già che siamo in tema, il
senso delle sale di palazzo De’ Rossi destinate all’esposizione della
collezione di quadri e tele, visto che sono opere di cui la comunità non può
fruire e, di fatto, non contribuiscono a far conoscere Pistoia ad un pubblico
più vasto?
Cliccare sull’immagine per ingrandirla.
[Domenica 7 aprile 2013 | 10:25 - © Quarrata/news]
C'è qualcuno che potrebbe dare torto al Sig. Cristofani?
RispondiEliminaE bravo. Ma qual è lo spirito di certe associazioni pseudo filantropiche che in realtà sono espressione di "esaltazione" di merito. In esse - e non serve fare i nomi - la categoria di "eletti", lì asociati come benemeriti si auto-attribuiscono doti di magnanimità indiscussa, celebrandola in ogni occasione conferenziale-conviviale, chiaramente a loro riservata. E' la stessa logica che persegue lo stesso fine: non certamente un "bene-comune" ( riferito alla comunità), ma un privilegio personale conquistato nell'affermazione di una èlite di persone dabbene.
RispondiEliminaMDB