sabato 25 dicembre 2010

UNIVERSO MORALE


Fra i poli che segnano l’asse del fare giornalismo e cronaca, ma prima ancora vita, voglio inserire, in questa atmosfera natalizia, due cardini di uno scrittore che ho conosciuto tardivamente, ma che, credo, ho assorbito in profondità, e in primo luogo per affinità elettiva: Primo Levi.
Alla simpatia con l’uomo per le sue straordinarie e tragiche vicende, che mi hanno portato già tre volte ad Auschwitz e in Ucraina e Romania sulle sue tracce, un’altra se ne aggiunse – immediata, forte, non discutibile – per la serietà morale con cui Levi guardò e lasciò la vita: un rigore di affetti e, al tempo stesso, di ragionamento e di logica allorquando, con il gesto assai simile a quello stoico di Catone di Utica, vi rinunciò.
Era stanco del conformismo e delle finzioni. Era consapevole che la vita è guerra ogni giorno, perché ogni giorno c’è sempre qualcuno che vuole negarti qualcosa, che te la vuole togliere, che te la porta via.
Così ripercorro questo sentiero morale con due stralci tratti dal mio Invito alla lettura di Primo Levi (Mursia, Milano, 2000).
Credo che anche i nostri prìncipi, politici e/o no, religiosi o laici, dovrebbero accostarsi a uomini come questi: e più che citandoli senza averli letti, vivendoli senza proprio citarli.
È per questo che penso ancor più che scrivere sia, prima ancora che un mestiere, il dovere

***
Stanco di finzioni

Stanco di finzioni offre il pretesto per moraleggiare sulla figura dello scrittore professionista, con il quale – si capisce fin dall’inizio – che ‘dilettante’ è in piena rotta di collisione. Merita riflettere sul capoverso d’attacco:

Chi ha avuto l’occasione di confrontare l’immagine reale di uno scrittore con quella che si può desumere dai suoi scritti, sa quanto sia frequente il caso che esse non coincidano. Il delicato indagatore di stati d’animo, vibratile come un circuito oscillante, si rivela un tanghero borioso, morbosamente pieno di sé, avido di denaro e di adulazioni, cieco alle sofferenze del prossimo; il poeta orgiastico e suntuoso, in comunione panica con l’universo, è un omino astinente ed astemio, non per scelta ascetica ma per prescrizione medica (cfr. La storia di Avrom, in Lilít e altri racconti).

Nel dettato sentenzioso del periodo – che non ha niente da invidiare al composto tono di un Manzoni che parla del segreto che si rivela a un amico (cfr. I promessi sposi, XI) – e con la stessa vorticosità che conduce, passo passo, alla conclusione; la stessa ironia, lo stesso graffio impietoso, Levi definisce e si definisce implicitamente correlandosi alla figura in negativo di cui, con chimica precisione, analizza gli elementi per stabilirne la sostanza: fino a quello splendido «poeta orgiastico e suntuoso» che in realtà è «un omino astinente e astemio», ma – si noti la stilettata all’apparenza ingenua – «non per scelta ascetica ma per prescrizione medica».
La gnome a effetto, caustica, carica di perfidia («avido di denaro e di adulazioni», «cieco alle sofferenze del prossimo», «omino» – e si noti quel diminutivo), ha come contrappeso l’esclamazione che segue:

Ma quanto è gradevole, invece, pacificante, rasserenante, il caso inverso, dell’uomo che si conserva uguale a sé stesso attraverso quello che scrive! Anche se non è geniale, a lui va immediatamente la nostra simpatia: qui non c’è piú finzione né trasfigurazione, non muse né salti quantici, la maschera è il volto, e al lettore sembra di guardare dall’alto un’acqua chiara e di distinguere la ghiaia variopinta del fondo (cfr. La storia di Avrom, in Lilít e altri racconti).

L’etica dell’antiletterarietà, che tornerà in Levi poeta e che affonda le sue radici anche in suggestioni montaliane (cfr. L’opera [1983] in Ad ora incerta, poi in Opere, 1988, vol. II, p. 67), si preannunzia fino da questo racconto, che contamina – nella maniera alchemica cara a Levi – uno dei temi di I limoni con quello dell’uomo «che se ne va sicuro» di Non chiederci la parola.

» Guerra è sempre «

… Cosí, in una Cracovia che sembra tornata alle origini – in cui non esistono né regole né punti fermi, ma solo un brulicare di uomini e di eventi che si moltiplicano spontaneisticamente e senza una logica –, Levi apprende la filosofia pratica di Mordo Nahum, un unico precetto assoluto per cui «Guerra è sempre», non esiste pace, non esiste tregua, poiché – come lo scrittore osserva – «l’uomo è lupo all’uomo»:

È noto che nessuno nasce con un decalogo in corpo, e ciascuno si costruisce invece il proprio per strada o a cose fatte, sulla scorta delle esperienze proprie, o altrui assimilabili alle proprie; per cui l’universo morale di ognuno, opportunamente interpretato, viene a identificarsi con la somma delle sue esperienze precedenti, e rappresenta quindi una forma compendiaria della sua biografia. La biografia del mio greco era lineare: quella di un uomo forte e freddo, solitario e loico, che si era mosso fin dall’infanzia per entro le maglie rigide di una società mercantile. Era (o era stato) accessibile anche ad altre istanze: non era indifferente al cielo e al mare del suo paese, ai piaceri della casa e della famiglia, agli incontri dialettici; ma era stato condizionato a ricacciare tutto questo ai margini della sua giornata e della sua vita, affinché non turbasse quello che lui chiamava il «travail d’homme». La sua vita era stata di guerra, e considerava vile e cieco chi rifiutasse questo suo universo di ferro (cfr. Il greco, in La tregua).

Con occhi «di savio serpente», Mordo ricomparirà piú tardi nel libro, promotore di un commercio di prostitute. Il capitolo, che aveva registrato la presenza di un elemento inanimato, il treno, momento di una nuova scansione dei ritmi della narrazione, proseguirà con la descrizione del campo di Katowice, dove Levi potrà ancora approfondire le sue curiosità di natura etologica.

e.b. blogger
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