di EDOARDO BIANCHINI
Il dramma di una civiltà caramellata alla
Candy Candy dopo una rivoluzione fatta fallire
SO PER CERTO che mi farò un mucchio di nemici.
E com’è possibile, mi chiederete, dato
che nessuno ti sopporta?
Lo so perché sto per affrontare di
nuovo un discorso che non piacerà a nessuno: né di destra, né di centro, né di
sinistra. Ma ditemi, sinceramente: un essere più o meno umano che ragiona con
il proprio cervello, può stare zitto se non si ritira in Tibet e tronca
qualsiasi forma di rapporto con questa civiltà futura che ormai è
presente e che ci ha riportato al passato: a un passato da stomachevole libro
Cuore?
Prendo in prestito un tiolo della Nazione,
ma ce ne sarebbero esempi in tutti i giornali di questa Italia delle marionette
e della cultura da Candy
Candy.
L’elefantino dell’informazione
pistoiese – come diceva negli anni 90 Giuliano Fontani, caposervizio del Tirreno
– si augura che Marco, il centauro morto in un incidente, «possa sentire il rombo dei motori anche da lassù».
Siamo davvero, ormai, all’asilo di suora
Adele, ai pensierini delle scuole elementari degli anni del Duce, alla piccola
vedetta lombarda, al piccolo scrivano fiorentino, al tamburino sardo e giù fino
in fondo all’abisso: insomma a quell’ammasso di diabete mellito che sbaglia la
vita (truce, crudele, inarrestabile, pasoliniana: basta guardare politica e
tribunali) per la recitina di fine anno dell’asilo del paese più piccolo e
sperduto d’Italia e in una zona delle più depresse della Sila – senza offendere
l’ultimo degli orsi rimasti.
C’era una volta un 68 fatto di
rivoluzione e di rivendicazioni. Un 68 violento e reale come la vita. Un 68 in
cui le donne – quelle che oggi sono professoresse e manager, quote rosa, professioniste
e politiche e quant’altro, ma che si dipingono i fiorellini sulle unghie e che
vanno a lavorare negli uffici pubblici con le ciabattine alla Sheherazade… –
rivendicavano aggressivamente, protervamente, sprezzantemente, inarrestabilmente
un loro ben preciso ruolo di assoluta indipendenza e parità. Un 68 in cui un
fortissimo Partito Comunista Italiano, ancora caro al Signor Giorgio
Napolitano, faceva questioni di carattere morale e chiamava il popolo alla
lotta di classe e alla conquista di spazi sempre più ampi da lasciare, tutti,
al bene comune della collettività e degli sfruttati dalla finanza e dal Capitale.
Un 68 al quale – pur se non sembra averci mai partecipato – anche Vannino
Chiti, l’uomo dell’improvvidenza della Toscana e della Breda, si è
rifatto in uno dei suoi libri che, fortunatamente, cadrà con lui nel
dimenticatoio.
Poi i comunisti decisero, con un salto
di qualità, quale potesse essere la via da battere per prendere due piccioni
con una fava: eliminare i socialisti e Craxi (pericolosissimi) e mandare in
frantumi la balena bianca per prendere le redini della Nazione (?). E
oggi siamo ridotti a un popolo di minus habentes che masticano frasette
da Baci Perugina e giocano sui telefonini a rispondere – a non so che cazzo di numero che li frega – che cosa si fa con il luppolo, se la birra o l’aranciata;
se Romeo e Giulietta sono di Verona o di Milano; se le lacrime sono dolci o
salate: perché la cultura media italica è questa post-sessantottina tessuta da
schiere di docenti che non hanno distinto il culo dalle quarant’ore; e il senso
del comune sentire è quello tipico della telenovela ispano-americana delle
lacrime (dolci o salate?) e degli entusiasmi improvvisi e devastanti da
psico-instabili.
Ed è una tragedia vivere in una Nazione
(?) di psico-inevoluti, definiti bamboccioni da quella sant’anima di
Padoa Schioppa (postcomunista!), che non sanno cosa vogliono, ma che vibrano,
come anime del Paradiso dantesco (anch’esso spiegato al volgo non da un
Sapegno, ma da un Benigni, il che dice tutto), quando qualcuno dice loro le paroline
magiche strappalacrime degli angeli con le alucce bianche e di un lassù
indimostrato, mentre le sinistre (ma a ’ro stann?) hanno dimenticato
Gramsci e il suo giudizio su preti e Manzoni, e tutti piangono: e applaudono se
qualcuno si augura che Marco «possa sentire il rombo dei motori anche da lassù».
Se non sbaglio nel poema di Gilgamesh, il
dio Enlil s’incazza come una belva e manda il diluvio universale perché un
giorno, mentre fa la pennichella, gli uomini fanno un tal casino e un tal fracasso,
da svegliarlo: e lui, giustamente, li affoga tutti – o quasi.
Speriamo di no, però. Speriamo che,
molto più piamente e rispettosamente, Marco non senta, da lassù – se un lassù
esiste, del che fortemente lasciatemi dubitare –, che
silenzi e profondissima quiete leopardiana.
E speriamo che Dio non si svegli dalla
pennichella – iniziata sin dalla domenica dopo la creazione: e si vede, data la
sua assenza dal mondo… – e, per tutti questi rombi, parole inutili e insulsi
applausi da telenovela ispano-americana, non s’incazzi e non ci mandi lo scioglimento
totale dei ghiacciai e l’innalzamento delle acque di 15 metri, decimando un’umanità
beota e insensata!
[Questo intervento è pubblicato come
espressione di libera critica ex art. 21 Cost.]
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[Giovedì 22 agosto 2013 | 10:11 - © Quarrata/news]
Devo dire che, a parte qualche dettaglio, sulla cultura "Candy Candy", mi trovo - infelicemente - a concordare.
RispondiEliminaIl "tamburino" è ormai :-)sordo...e Sapegno io l' ho studiato a scuola, Benigni mi fa afa. E ringrazio il cielo.
RispondiEliminaGlielo ha detto Vannino al figlio che il truce Almirante,capo del MSI ( e quindi per accettata ed imposta vulgata,dei fascisti),in ogni suo comizio ripeteva sempre ai giovani la tesi della "nostalgia dell'avvenire"? I compagni scopiazzanti,son ridotti proprio male. Da Marx/Stalin/Lenin/Berlinguer a Giorgio Almirante. Rallegramenti!
RispondiEliminaSecondo lo Spadoni il paese di Chiti (Saturnana, Le Grazie, cosa...?) sarebbe un paese di montagna.
RispondiEliminaInfatti lì c'è le Ande e il gusto ci guadagna.
complimenti per questa spietata, verace e condivisibile analisi, purtroppo vera e pienamente condivisibile
RispondiEliminamDB