di LUIGI SCARDIGLI
Jennifer Batten, Uli Jon Roth e Ron Bumblefoot Thal incantano
il pubblico del Jungle
CASCINA. Le vedove, si sa,
riescono a tirare avanti anche da sole. E sarà per questo che ieri sera, nella
pineta del Jungle, a Cascina, solo
Jennifer Batten – ex caposala di ortopedia: affermazione retorica, speriamo che
quelli del Wallace non leggano – tra i tre chitarristi in scaletta, si è
presentata da sola sul palco, con la sua sei corde e una scatoletta che
incorporava il resto della strumentazione.
Alle sue spalle, sul telone del palco,
alcune immagini che avevano in qualche modo a che vedere con quello che la
chitarrista newyorkese, sessionista di Michael Jackson prima e Jeff Beck dopo,
andava suonando.
Ha iniziato con Bad, la signora del funky – che ignora la superstizione (si è
presentata con un cappottino leggero viola, fate voi) –, un tributo doveroso al
suo bandleader più famoso, passando per il volo
del calabrone e continuando la propria esibizione in un’allegoria di stili
e passioni incontrollabili e incontrollate, 40 minuti di classe cristallina che
si sono sistematicamente infranti al cospetto della sua immutabilità: le mani
separate dal corpo, la testa immersa nel jack e nella cuffietta dell’orecchio
destro, il microfono appoggiato alla consolle, usato solo e soltanto per
ringraziare e presentare il pezzo successivo.
Una volta terminato il proprio
repertorio, la 56enne statunitense si è ripresa la sua robina, strumentazione minimale ma efficacissima, e ha lasciato il
palco ad uno dei colleghi più rapidi e puliti della storia della musica, quel
tedesco figlio ed orfano dei fiori, Ulrich Roth – al secolo Uli Jon Roth – ,
che ha preteso una band che lo confortasse, i Sushi Rain, fieri, i toscanacci, e non poco orgogliosi dell’occasione.
Sì, certo, anche da solo, l’ex creatore degli Scorpion e docente di moltissimi
chitarristi rock dal 1980 in poi, nessuno avrebbe osato dubitare il suo nitore,
una serie di impegnativi esercizi ginnici e sonori sui quali non ha
soprasseduto in alcuna circostanza, una lezione meravigliosa di rock and roll,
purissimo, che si sarebbe potuto tagliare
con qualsiasi agente chimico e strumentale in circolazione, ma che così, allo
stato cristallino, originario, puro, ha prodotto effetti collaterali devastanti,
nonostante lui, il teutonico, sembrava più immerso nei retaggi di Heidi, che
dei Led Zeppelin.
Terzo ed ultimo ospite, il cattivo
della serata, il maledetto, il più giovane, il più scenico, il più teatrale:
Ron Bumblefoot Thal, attuale
strumentista dei Guns’n’Roses, una
militanza così illustre, un’appartenenza così orgogliosa che ce lo aveva
scritto culla fruits con la quale si è presentato sul palco, sotto l’immancabile
e per alcuni versi patetico trittico di altre e sorpassate stagioni, sesso,
droga e rock and roll!
Si è presentato con Pink Panter, di Henry Mancini,
distorcendola a sua immagine e somiglianza, per poi scalare la montagna del
rock e dell’haevy, cercando e trovando quel contatto con il pubblico che era lì
più per riuscire a toccarlo, che per ascoltarlo. Il rock, del resto, è anche
questo, e il concittadino di Jennifer Batten, dodici anni più giovane, lo sa
benissimo; si capisce dall’abbigliamento, da come si tiene in disordine il
pizzo che gli scende sul petto, da come si lascia contaminare dalla folla che è
li per acclamarlo, divinizzarlo, renderlo immortale.
Prima di chiudere, ai fortunati
fedelissimi presenti ad un concerto semplicemente portentoso, i tre fuoriclasse
sono saliti sul palco insieme, ricordando, a modo loro, i Led Zeppellin,
distribuendo, dopo magici assoli e impronosticabili svisate, sorrisi, baci e
plettri.
Autentici.
Cliccare sull’immagine per ingrandirla.
Foto di Alagia Scardigli.
[Lunedì 5 agosto 2013 | 15:25 - © Quarrata/news]
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