giovedì 11 ottobre 2012

PIERO MACCARINELLI. UN ‘BORKMAN’ TUTTO E SOLO NOVECENTO


di Niccolò Lucarelli

Il regista ci parla dell’opera di Ibsen in prima nazionale al Manzoni

PISTOIA. Sta per partire in prima nazionale il Borkman di Ibsen e incontriamo il regista Piero Maccarinelli.

Lei ha chiuso la scorsa stagione teatrale alla Pergola con una commedia di Marivaux, e sta per aprire quella del Manzoni con una dramma di Ibsen, scritto alla fine dell’Ottocento. A cosa è dovuto questo salto temporale?

Non direi che, a ben guardare, il salto temporale sia poi così evidente. Mi spiego: amo la drammaturgia in generale e le storie sulle dinamiche familiari, ambientate in contesti diversi. In Marivaux, avevamo padri e figli alle prese con l’innamoramento, Ibsen ci presenta invece un figlio con un padre e due madri.
Per cui, la continuità, nella drammaturgia, c’è. Oltre a questo, sono affascinato dalla scrittura teatrale dei grandi autori, e Marivaux e Ibsen, al di là delle epoche diverse nelle quali hanno vissuto, sono appunto grandi autori; non ho una visione monomaniacale della drammaturgia, per me non esiste il teatro “classico”, o “contemporaneo”, ho una visione drammaturgica senza soluzione di continuità.
Adesso, in Italia, mi sembra ci sia un grande desiderio di scelte radicali che io non condivido; preferisco ritrovare, di volta in volta nei diversi testi a autori che affronto, me stesso e gli attori che dirigo. E il Borkman di Ibsen è un appuntamento che, nella mia carriera, prima o poi sarebbe arrivato. Prima di affrontarlo, ho indagato tanti generi teatrali, dalla grande tragedia al teatro di boulevard, alla commedia brillante, perciò mi definisco un eclettico. Ma questo, in Italia spiazza non poco critica e pubblico, poiché si preferisce inquadrare persone e opere all’interno di etichette predefinite.

Che importanza riveste l’estetica, nel suo teatro, sia da un punto di vista della drammaturgia, che della scenografia?

Non posso dare una risposta univoca, poiché l’estetica dipende dalle situazioni, e del resto il teatro non è recitabile in un unico modo. Parlando dell’approccio degli attori, posso dire che ce ne sono di consapevoli, e altri che lo sono meno, e allora si rende necessario un intervento più marcato del regista. Parlando del Borkman, almeno quattro degli attori hanno attorno a sé una luminosa aurea drammaturgica, con una visione complessiva dell’opera e una grande consapevolezza del ruolo che ricoprono all’interno di essa. In casi come questo, a livello di regia si discutono più soluzioni con gli attori stessi, per cui il risultato finale è il frutto di una mediazione attori-regista. Ma, ripeto, non c’è un’unica strada per ottimizzare la recitazione.
Parlando di scenografia, anche qui il discorso è molto simile. Di volta in volta, lo spazio del palcoscenico ha dimensioni diverse. Ad esempio, in Colazione da Tiffany, avevo a disposizione una scenografia complessa, articolata su due piani. In Il gioco dell’amore e del caso, al contrario, l’impianto era molto più semplice, giocato su fondali olografici. E ancora, nel Borkman è tutto più vuoto, ci sarà una scatola di velluto liscio che crea un effetto cinematografico. In conclusione, al di là delle esigenze del regista, molto dipende dai mezzi finanziari a disposizione. La genialità di tanti registi è legata alle possibilità di esprimere questa stessa genialità, e oggi, in questo difficilissimo momento economico, esistono grossi problemi tecnico-finanziari nella gestione dei teatri, che non sono da sottovalutare. La questione va affrontata, ed è ovvio che si debba ogni giorno fare i conti con queste ristrettezze; l’unica soluzione è ottimizzare le risorse, senza che la qualità estetica del teatro ne soffra troppo.

In mezzo alla volgarità quotidiana, offerta dalla politica, dai giornali, dalla televisione, il teatro sembra essere rimasto il solo spazio maturo di dibattito sulla società. Quale messaggio affida al suo teatro?

Nel caso del Borkman, Ibsen ha voluto affrontare il tema tragico e affascinante dell’utopia; centro del dramma è un uomo che vuole rendere felice il mondo, ma riesce soltanto a distruggere l’esistenza di coloro che ha intorno. Non a caso, il grande Bergman ha esaltato l’egotismo dell’artista che crea intorno a sé ignorando gli altri. Da parte mia, ero interessato a capire come il discorso di Ibsen sulla felicità umana si trasferisce su persone più giovani di una generazione, e che hanno vissuto la fine dell’ultima utopia, ovvero la caduta del Muro di Berlino nel 1989. Il testo, nella traduzione ormai classica di Claudio Magris, ha subito un importante lavoro di sintesi, poiché ho preferito eliminare quelli che in gergo i chiamano “riccioli”, per arrivare direttamente all’essenza del messaggio drammaturgico. E, a differenza di quanto accadde al testo di Marivaux, non ho ritenuto opportuno apportare modifiche al registro linguistico.
Ho scelto di ambientare l’opera nel Novecento, poiché è stato l’ultimo secolo nel quale si sono sviluppate e sono morte le utopie; se avessi scelto un’ambientazione contemporanea, dei nostri giorni, la grandezza del Borkman avrebbe completamente perso le sue basi. Cosa resta, infatti, delle utopie, degli ideali, oggi, in questa Italia sfregiata ogni giorno dalla corruzione, dalla mancanza di etica, dalla volgarità, dal materialismo?

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[Giovedì 11 ottobre 2012 - © Quarrata/news 2012]

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