di LUIGI SCARDIGLI
Per tre giorni esibizioni live fuori dalla cerchia del
mercato
A STARE rinchiusi nel convento
si corre il rischio, tangibile, di pensare e convincersi che fuori non ci sia
nulla di migliore, ma anche solo di diverso. Peggio: ci si convince che fuori
non esista.
E invece, per fortuna, fuori c’è,
eccome e nello scorso fine settimana, sotto i portici di Palazzo di Giano, se
ne è avuta una dimostrazione lampante, piacevole e gradita. Indispensabile, è
forse il caso di aggiungere, con tanto di sottolineatura. La musica
indipendente ha fatto tappa a Pistoia e venerdì, sabato e domenica scorsi ha
piazzato manager, musicisti, vinili, Cd, video e anche un microfono e un paio
di casse per raccontare ai pistoiesi, figli di un dio che controlla il mercato,
non solo quello della nostra città, ahinoi, che la musica non è solo quella che
si ascolta alla radio, che si vede nei video o che si produce ai concerti.
Esiste un sottobosco floridissimo, che
non ha mezzi per come reclamizzarsi e dunque non ha la possibilità di farsi
ascoltare da un mercato che non ha tempo di ascoltare. Tra questi, i Triad, una formazione principalmente
sonora che ha cercato, riuscendoci perfettamente, di coniugare i ritmi
primordiali dell’Africa con il jazz. Il risultato si chiama Dreamtime, dieci tracce che soddisfano,
ampiamente e con pregevoli risultati, la voglia di questo ritorno al futuro, di
questa proiezione nel passato.
L’equazione ritmica è quella che si
instaura tra i sax soprani suonati da Eric Marienthal e Tino Tracanna, tar i
vocalizzi di Virginia Quesada e quelli, in contraltare, di Eduardo Cespedes,
con il djembèe affidato a Mamadoù Diouf, il sax e il flauto nella bocca e nei
progetti di Sandro Cerino, nella chitarra di Giuseppe Scarpato e nel vibes di
Daniele Di Gregorio.
Un cofanetto graficamente anonimo, ma
inquietante, una galleria, sul fronte, dalla quale si intravede un bagliore di
una luce gialla e che rimanda l’ascoltatore nel quarto di copertina, che
raffigura una strada statale di una periferia qualsiasi.
Al di là delle emotività ottiche,
ascoltarlo è un piacere, soprattutto per chi non ha ancora del tutto staccato
la spina dalla nostalgia della world music prima maniera, quella eseguita da
Mike Manieri o dai Weather Report, gli Steps Ahead o gli YellowJacket, fino all’apoteosi
della Mahavishnu Orchestra, stuolo di musicisti che non si sono mai permessi il
lusso, per rispetto e devozione, di ignorare le origini dei propri studi sonori
e sintattici, prima che musicali, che non possono che ricercare le origini tra
i tribalismi equatoriali dell’Africa.
Alla confezione del Cd, prodotto da Raffinerie musicali di Lacchiarella
(Milano) e registrato a Bergamo nello studio Cavò, hanno partecipato, fattivamente, il basso di Ezio Salfa, le
tastiere di Gendrikson Mena Diaz, il digeridoo di Tanni Walter Mandelli e la
batteria e le percussioni affidate a Gennaro Scarpato.
Ad un terzo Scarpato presente nella
raccolta, Antonio, è dedicata la registrazione, realizzata grazie ad una serie
di personaggi che gli artefici dell’incisione si sono preoccupati di
ringraziare pubblicamente: Lelio Morabito, Iaia e Jacopo Scarpato, Filippo
Giunta e la Rototom Sunspalsh,
Lamberto Cesaroni, ST Pro e la Fondazione Luigi Tronci, la nostra Fondazione di
uno degli uomini più importanti e meno ascoltati di questa città, il padre dei rumori, Luigi Tronci, che persevera
nella produzione e realizzazione di opere minori, quelle che non appartengono
alò dio del mercato.
Piccola, ma significativa obiezione: l’uso,
sull’intera collezione, della lingua inglese, uno dei mali di un mercato
assuefatto a se stesso.
Cliccare sull’immagine per ingrandirla.
[Mercoledì 27 novembre 2013 | 18:59 - © Quarrata/news]
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