di LUIGI SCARDIGLI
Un’ora piena di footing in vista della “Maratona
di New York”
MONSUMMANO. Chissà se a New York, nel novembre del prossimo anno, Mario
(Cristian Giammarini), andrà per partecipare alla Maratona. Di sicuro, dopo gli
allenamenti effettuati con il ricordo del fratello morto (Giorgio Lupano), che
è anche e soprattutto la sua coscienza, è pronto. Non solo per correre la
grande corsa, ma anche per affrontare la vita.
Il senso della Maratona di New York,
spettacolo di Edoardo Erba per la regìa dei due allenatissimi protagonisti, in
scena ieri sera al Montand di Monsummano Terme, è questo, con tutte le
sfumature e gli accidenti del caso. Ma nei sessanta minuti durante i quali i
due fratelli inseguono il sogno di farsi trovare pronti al grande appuntamento
podistico statunitense, sono proprio le fatiche e le insidie della stanchezza e
del senso di smarrimento esistenziale a dare la rotta ai loro sforzi, un
pungolo continuo verso la chimera, lo zen, senza avere mai la certezza di sapere
e capire che il grande gioco, come la grande corsa, ne valgano poi la pena.
È Mario il fratello minore, il bambino
che deve crescere, il ragazzo che deve diventare un uomo e che trova mille
scuse più o meno plausibili per attestare la propria maturazione: un’influenza
debilitante vinta solo con gli antibiotici, ma della quale sono ancora vivi
strascichi e incombenze, le chiavi della macchina, il paracarro, il passaggio a
livello, una stanchezza cronica, insomma, la voglia e il desiderio di
rimandare, quanto più possibile, l’appuntamento con la ragione, con la vita e
con le sue responsabilità.
Lo spettacolo inizia con un solo occhio
di bue che illumina un paio di scarpe da ginnastica: sono quelle che Steve
ordina di calzare a Mario, che si risveglia dopo un lungo sonno, un
violentissimo incidente. Da quel momento in poi, la scena, è solo un correre
sul posto, un’ora di allenamento nel quale si mescolano banalità e aspirazioni,
luoghi comuni e speranze, paure e chimere.
La testa della corsa la tiene Steve,
naturalmente, lo Zeno della situazione, che ha il compito, prima di svanire nel
dimenticatoio, di insegnare al proprio fratello a correre, a correre con
criterio, dovizia, centellinando fatiche, ottimizzando passi, ma soprattutto
dimenticando quello che è stato perché a nulla gli servirà per quello che dovrà
diventare, per quello che potrà essere.
Sullo sfondo, modello psycho, passano,
improvvisamente, come meteore da incubi, flash di giovinezza, ritagli di
videocassette strappate, che accompagnano le sistematiche e progressive
vicendevoli confessioni dei due fratelli e che termineranno solo quando il
maggiore, Steve, forse tragicamente morto, capirà che il fratello è finalmente
riuscito a scrollarsi del tutto di dosso i retaggi adolescenziali. Solo allora,
la fatica imporrà a Steve di uscire di scena; nel frattempo, Mario, ha
finalmente vinto la stanchezza, la tosse è scomparsa e all’orizzonte c’è New
York, che somiglia ad Atene: è lì che arriverà per annunciare ai vinti l’esito
della battaglia, è sulla piazza della vita che potrà urlare di essere
finalmente cresciuto, tanto che il fratello, nel frattempo, ha tolto la propria
tuta blu per indossare quella spezzata con il quale il fratello più piccolo, un’ora
prima, ha iniziato a correre. Ed è diventato un uomo.
Cliccare sull’immagine per ingrandirla.
Foto di Luigi Scardigli.
[Giovedì 16 gennaio 2014 | 08:36 - © Quarrata/news]
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