di Giampaolo Pagliai
PISTOIA. Nel giorno del funerale di don Ferrero Battani, 12 gennaio
2013, i pochi automobilisti forestieri che, dalle 10 alle 13, transitavano per
la strada da Mattia fino ad un chilometro oltre la Chiesa di San Giovanni
Battista, rimanevano colpiti dal numero di macchine e di persone che si
ammassavano intorno alla Chiesa di Val di Bure; un signore abbassò il
finestrino e mi chiese: “Ma è successo qualcosa di grave?”. Risposi: “Sì è
morto Ferrero”.
Dentro la Chiesa, dopo le 10 si ebbe grande
difficoltà ad avere anche un posto in piedi, il Vescovo, che fece una
commemorazione magistrale, e tutti i sacerdoti concelebranti rimasero
impressionati dall’affetto, dalla stima e dal calore che in quella mattina
freddissima si accalcava intorno al feretro di quel semplice prete.
Le preghiere, i canti e le lacrime
hanno coinvolto tutti, vecchi e bambini, credenti praticanti e laici convinti,
alla fine, ed era l’una, i presenti stentavano ad uscire quasi a voler fermare
l’evento mortale, finché il gruppo dei più giovani, un gradino sotto l’altare,
intonò ancora, ma non per l’ultima volta, la canzone da lui sempre preferita: “Addio
amici, noi ci rivedremo”.
Dopo un anno il ricordo di don Ferrero
è rimasto fresco tra tutti coloro che lo hanno conosciuto ed amato.
Recentemente tutti, cattolici e non,
sono rimasti colpiti dalla figura del nuovo Papa Francesco, dalla sua
semplicità che lo avvicina a tutti, dalla sua capacità di ascoltare le più
semplici domande di aiuto, dalla sua tolleranza.
Ferrero era proprio come lui, ha
vissuto una vita da prete di campagna, da prete-contadino, facendo volentieri a
meno del “don”: lui era Ferrero e basta.
Delle tante immagini che mi sono
rimaste di lui ne scelgo una che non ho visto, ma che immagino, ed un’altra che
non scorderò mai.
La prima quando, da giovane prete, in
motocicletta, quasi alla don Camillo, con la sua cara madre seduta dietro a
lui, si recò a vedere la Chiesa di Val di Bure, venendo dalla rossissima
Lamporecchio per andare in una vallata che di certo meno rossa non era.
Nella prima metà degli anni 60, alla
Casa del Popolo di Santomoro, nel corso di una riunione di giovani socialisti,
due miei carissimi compagni, Aldo Ozzati e Lorenzo Poli, purtroppo scomparsi
troppo giovani, mi parlarono un gran bene del prete di Val di Bure, che si
impegnava tenacemente per i suoi paesani, e me lo rappresentarono così bene che
mai, fino ad allora, avevo sentito dire di un prete.
Quando lo conobbi capii che avevano
ragione perché era disponibile con tutti e tollerante, seppur fortemente
appassionato della sua Fede.
Quando dal 1976 al 1980, i servizi
sociali del Consorzio Socio-sanitario non sapevano più a quale porta bussare
per le sorti di qualche giovane difficile da recuperare, bussavamo alla porta
della canonica di Ferrero e lui ci apriva sempre.
La seconda immagine che ricorderò
sempre è quella di quando, nel suo ultimo viaggio in Terra Santa, arrivammo al
Rum e dovevamo incamminarci per una gola stretta per arrivare a Petra; la
giornata era soleggiata e caldissima, il percorso da fare a piedi molto lungo,
sarebbe stato possibile usufruire del servizio di piccoli calessi disponibili
per le persone più anziane.
Cercai di convincere Ferrero a farne
uso ma non ci riuscii, mi guardò ridendo e mi disse: “Ma ti pare possibile che
io vada in carrozza e voi a piedi?”.
A forza di insistere accettò di montare
su un ciuchino molto basso, tanto che Ferrero toccava quasi la terra con la
punta dei piedi; sorridendo arrivò felice davanti alla maestosa facciata del
tesoro di Petra ma, durante il tragitto, a vederlo, era troppo facile pensare a
molte iconografie legate alla nascita di Gesù.
Sono laico, ma penso che Ferrero sia
felicemente arrivato lassù proprio in groppa a quell’asinello.
È passato un anno e sembra ieri, ma la
sua mancanza è ora confortata dall’impegno che molti spendono per dare
attuazione al suo insegnamento.
Grazie Ferrero maestro di vita.
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[Mercoledì 8 gennaio 2014 | 10:38 - © Quarrata/news]
Bravo, Giampaolo. Vedi che quando tu ci metti, tu sei anche ... bravo?
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