di Luigi
Scardigli
Difficile parlare di Lucio Dalla un attimo dopo aver appreso
la notizia della sua scomparsa. Sì, perché ha sempre dato l’impressione di
essere immortale, l’uomo dalle mille resurrezioni, il jazzsinger che è
diventato uno dei più importanti esponenti della musica d’autore, ma che ha
voluto sondare il cosmo della worldmusic attraverso la sua personalissima
visione semiseria, ritmata controvento, sotto il segno, inconfondibile, del
jazz.
Domenica, Lucio Dalla, avrebbe compiuto 69 anni se il suo
cuore, improvvisamente, non avesse deciso di smettere di canticchiare: lo ha
fatto stamattina, in Svizzera, a Montreaux, per la precisione, patria di uno
dei più grandi festival internazionali di musica, dove Lucio Dalla si trovava
perché all’inizio di una lunga, ma brevissima tournée.
Era nato il 4 marzo 1943, il giorno omonimo di uno dei suoi
più grandi successi, 4/3/43, appunto,
una poesia struggente che subì la censura dell’Ariston e che per essere
eseguita a Sanremo, Lucio Dalla dovette per forza di cose cambiare, cantando la gente del porto al posto de le puttane del porto.
Cambiò poco, nulla, anzi. Non fu quell’insignificante veto
sintattico a deviarne la traiettoria artistica, che stava iniziando a farsi
famelicamente strada tra i meandri della beat generation: i suoi clarinetti, i
suoi versi irriverenti, quei gorgheggi e suoni gutturali da ventriloquo, il suo
ineccepibile vocalese, quella poesia d’amore asessuato incontravano,
trasversalmente, ammirazione e consensi. Un adorabile folletto che prima di
burlarsi del mondo intero ha amato non prendersi sul serio, è riuscito ad
incappare puntualmente nel successo da qualsiasi parte abbia deciso di
imboccarlo e scendendo con parsimonia a compromessi.
Certo, il suo amico intransigente, rivoluzionario e
artisticamente inflessibile, Roberto Roversi, gli perdonò poco l’incisione di Com’è profondo il mare, album che lo
catapultò, da vero e proprio trionfatore, nella musica commerciale dopo un
esordio sontuoso ma militante, di studio e dogmi.
Ma a conti fatti, e a distanza di trentacinque anni, si può
tranquillamente affermare che brani come L’anno
che verrà, Disperato erotico stomp,
Quale allegria, di
commerciale, nel senso più intimo e detestabile del termine, avevano ben poco;
anzi, nulla. Degli altri 28 album pubblicati – e milioni di copie vendute –, delle irreverenti e sfrassolate
partecipazioni televisive – quando il tubo catodico sfoggiava artisti, comici,
soubrettes vestite e intrattenimento dignitoso –,
delle sue sontuose apparizioni cinematografiche dirette da gente come i
fratelli Taviani, Mario Monicelli e Pupi Avati, inutile parlarne: appartengono
alla memoria di ognuno di noi, di coloro i quali hanno sempre ragionevolmente
demandato alla musica e all’arte quel pizzico di inimitabile follia,
inconcepibile creatività, adorabile compagnia.
Stavolta, in un periodo inflazionato da lutti pilotati dallo
starsystem, versare due lacrime per la scomparsa di un animale dello spettacolo
come Lucio Dalla è cosa buona e giusta.
Anzi, forse doverosa.
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[Giovedì 1° marzo 2012 – © Quarrata/news 2011]
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