di Luigi Scardigli
Almeno per un istante, ieri, il nostro pensiero è stato rapito dal dolore vero che ha fatto cerchio attorno al feretro di Marco Simoncelli, lo sfortunatissimo centauro romagnolo morto domenica scorsa sul circuito malese di Sepang, durante la gara della MotoGp, in seguito ad un rocambolesco, quanto tragico incidente avvenuto al secondo giro della competizione, teletrasmesso da mille angolature a tutte le velocità possibili e immaginabili, con tanto di fermo immagine e dettagli tecnici che hanno gravitato attorno alla temperatura dei pneumatici (troppo freddi, al via, per sopportare le pressioni), l’anomala statura del funambolico ragazzone con una faccia rock di brutto e una sicurezza, che a trecento all’ora, in equilibrio su due ruote, è oggettivamente difficile da garantire e pretendere.
Anch’io mi sono virtualmente fermato un attimo a pensare a Sic – così lo chiamavano le migliaia di suoi tifosi, in ansia d’attesa per proclamarlo, a pieno titolo, erede unico del suo, sappiamo tutti inimitabile e irraggiungibile predecessore, Valentino Rossi – e ho avvertito tristezza. Perché no, diamine: 24 anni, un sorriso contagioso, una faccia da rock di brutto, come dice Silvano, una sportività indubbia, anche se spesso messa a repentaglio da un’irruenza al limite dell’ortodossia, ma garbata, e una possibilità, non proprio così tangibile, a onor del vero, di vedere, attorno al collo di un altro italiano, gli allori poggiati su quello del dottore di Tavulia, che probabilmente, dopo questo nuovo sconcertante segnale, proverà a lasciarsi dietro l’adrenalina della competizione, ipotizzando di mollare, continuando comunque a fregiarsi con i suoi nove titoli mondiali vinti (e due persi, ne sono convinto, perché consapevole di fare il furbo con il Fisco).
E mentre caracollavo osservando le immagini della chiesa gremita per la sua celebrazione funebre, mi sono venute in mente le parole, sagge e coraggiose, della madre: «Mio figlio è morto contento; è morto facendo quello che ha sempre sognato di fare da quando era bambino».
Sempre ieri, sull’altro versante marino, sul Tirreno, tra la Toscana e la Liguria, per l’esattezza, un’altra Italia, ancor più disastrata delle tragiche coincidenze occorse a Sic, piangeva e soprattutto bestemmiava Giove pluvio perché in questo Paese dove si discute della temperatura dei pneumatici di Simoncelli, basta che grandini per 48 ore e si cancellano i paesi, esondano i fiumi, crollano ponti e case e muoiono, come bestie, uomini, donne e bambini, che pagano il tragico scotto di trovarsi, proprio come Sic, nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Con una differenza, sostanziale e tragicamente collegata ai due luttuosi eventi, se non altro in modo consequenziale: in un Paese dove si scempia la natura, dove si costruisce ovunque si possa trarre guadagno, sbattendosene bellamente di equilibri, dove si scarica in fondo al mare merda e radioattività, in un Paese dove la pioggia si trasforma, non solo a Stazzema e Aulla, ma in tanti altri posti, più a nord, sud ed est, in un vero e proprio cataclisma, che diventa un killer spietato che falcia sei poveri innocenti, siamo onesti, in questo Paese, anche il dolore – che si trasforma puntualmente in talk show –, dovrebbe avere la dignità di differire tra un decesso e un altro per essere poi disequamente dispensato tra chi è morto inseguendo la vittoria e chi è caduto invece perché viveva in un posto amministrato da amministratori che hanno firmato licenze edilizie dove avrebbero dovuto invece pascolare vacche e buoi.
Sono convinto che la pensino così anche molti di voi, compresi la mamma e il papà di Sic.
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[Venerdì 28 ottobre 2011– © Quarrata/news 2011]
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