di LUIGI SCARDIGLI
Ma il protagonista di «La torre d’avorio»
compì solo una scelta artistica non abbandonando la patria
PISTOIA. La predisposizione al plebiscito la si era già avuta nel
pomeriggio, alla Biblioteca San Giorgio: Luca Zingaretti piace oltre ogni
ragionevole dubbio e anche ieri sera, nella prima delle tre apparizioni al
Manzoni con la nuova La torre d’avorio, ha sbancato con un lunghissimo
fragoroso applauso. Va bene, qualcuno, in platea, ha sbadigliato ripetutamente,
e senza aver tutti i torti, ad esser sinceri: un interrogatorio, quello del
direttore d’orchestra Wilhelm Furtwangler (Massimo De Francovich), senza tempo
e senza tempi che il maggiore americano Steve Arnold (Luca Zingaretti), troppo
sciocco per avere un onere così impegnativo, conduce con innaturale approssimazione.
Fino al punto che anche il giovane
tenente David Wills (Paolo Bruglia), un boy scout che la guerra ha
allontanato dai banchi universitari di Storia, alle prese per la prima volta con
un faccia a faccia, sembra avere maggiore consapevolezza e riguardo nei
confronti dell’artista incriminato, reo di non aver scelto l’esilio della
patria in mano delle SS ed aver proseguito, imperterrito, la propria vocazione
artistica, rischiando di colludere con il regime del Terzo Reich.
Al di là del fatto che la risposta non
arriva (l’arte deve proseguire senza curarsi della politica o l’arte, senza
politica, arte non è?) e che delle infiltrazioni tra potere e stampa ne è piena
la storia (non solo quella statunitense, ahitutti), manca, a nostro parere, l’eccesso
del mittente e quello del destinatario: Zingaretti è poco yankee, De
Francovich per nulla teutonico e né l’uno, né l’altro incarnano la
strafottenza degli Americani liberatori o la falsa caduta degli dèi dell’impero
germanico. La parentesi folle, perché devastata dal dolore e dalla
disperazione, della vedova Sax, appare un’isola felice, o infelice, dell’intera
struttura scenica, un blocco un po’ troppo granitico che non consente allo
spettatore la minima possibilità di contaminazione, tanto attiva, quanto
passiva.
Così come l’opaca arrendevolezza del secondo
violino – che si prostituisce all’istante senza nemmeno sapere quale
possa essere la pena espiatoria per aver collaborato con Hitler – stride un po’
con il rigore e l’orgoglio nazista.
Tutti bravi, bravissimi, ma senza
lasciare traccia, segnale, colore, ricordo. Una dimostrazione scolastica di
alto teatro che forse non avrà sortito l’effetto desiderato nei confronti di un
consistente zoccolo di giovanissimi venuti, ieri sera, forse, per la prima volta,
a veder aprire il sipario.
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Foto di Luigi Scardigli.
[Sabato 9 novembre 2013 | 11:20 - © Quarrata/news]
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