domenica 7 aprile 2013

PER FARE PROGRAMMAZIONE DELLA CULTURA SERVE UNA CULTURA DELLA PROGRAMMAZIONE


di LORENZO CRISTOFANI

Non bastano le centinaia di migliaia di euro che la Fondazione Caripit usa per realizzare gli effimeri ‘Dialoghi sull’Uomo’ – Dall’arazzo millefiori ai malmessi chiostri che cadano a pezzi, una galleria di beni assolutamente non sfruttati a dovere

PISTOIA. Talvolta, anzi spesso, di fronte a licenziamenti a pioggia e ad una decrescita tutt’altro che felice, capita di non avere molti argomenti da contrapporre alla vulgata per cui con la cultura non si mangia o che la cultura è un lusso che non ci possiamo permettere nei periodi difficili di crisi economica.
Tuttavia si dovrebbe esaminare, volta volta e caso per caso, la reale situazione delle risorse dedicate ad attività culturali, come vengono spese e soprattutto cosa producono.

Prendiamo la realtà pistoiese, che è sott gli occhi di tutti e che tutti possono valutare attentamente: proviamo ad esaminare in particolar modo il ruolo della Fondazione Caripit, l’ente che maggiormente investe, per statuto e tradizione, nel settore di arte e cultura.
Da un lato è grazie alla Fondazione che sono stati possibili, solo per fare qualche esempio, i restauri e risanamenti della chiesa del Carmine e dell’oratorio del SS. Crocifisso. Per non citare la pubblicazione della pregevole rivista Storialocale.
In generale i principi fondamentali dovrebbero essere quello della valorizzazione dell’esistente – e siamo nel caso del recupero del patrimonio – e quello di consolidare meccanismi virtuosi che possano radicarsi, e alimentare un sistema continuativo e non siano cioè episodi-spot o fine a se stessi.
In altre parole la sfida delle risorse impiegate nella cultura dovrebbe mirare a movimentare le energie locali, creando ricadute misurabili e percepibili sul territorio. In questo senso si può ritenere che i Dialoghi sull’Uomo, 350mila euro di spesa complessiva, rappresentino certamente un momento di visibilità per Pistoia, ma solo quello: la strategia adeguata per arricchire strutturalmente il tessuto sociale pistoiese, al netto dei nomi roboanti dei relatori della tre giorni di Kermesse e del tutto esaurito nei ristoranti, non è certo l’evento cerimonioso ed estemporaneo.
Per fare programmazione della cultura serve una cultura della programmazione, interdisciplinare e che faccia dialogare i diversi livelli istituzionali.
Arazzo millefiori
Le centinaia di migliaia di euro che la Fondazione usa per realizzare gli effimeri Dialoghi sull’Uomo potrebbero essere impegnati per una reale e seria crescita culturale, intesa anche come valorizzazione del patrimonio artistico locale, una ricchezza che colloca Pistoia tra i principali centri d’eccellenza italiani ma che non viene promossa come sarebbe naturale in una qualsiasi altra città.
Pensiamo ai chiostri, tra quelli restaurati e quelli in decadenza (come quello di San Giovanni Forcivitas, qui nella foto), all’arazzo millefiori – un’opera tessile unica e da primato, che potrebbe, da sola, essere un logo assoluto di richiamo – e ai pulpiti che fecero stupire Ruskin e con lui tutta l’Europa. Pensiamo alle mura in decadenza – sorridendo dei fantomatici gruppi di studio della SPSP – quando a Lucca l’intera città ci ha costruito dei veri e propri eventi permanenti, alla fortezza Santa Barbara, alle cannoniere del bastione Thyrion e ai rotabili storici.
Insomma, basterebbe adottare una mentalità un pochino più vivace, comprendendo che investire opportunamente in questi settori permette non solo di rendere consapevoli e partecipi e protagonisti i cittadini delle loro risorse, ma anche di creare, eventualmente, un indotto occupazionale autonomo che si autosostiene senza assistenzialismo.
Si creerebbero le condizioni per aumentare sensibilmente il turismo – si badi bene, non quello massivo e banalizzante di tipo fast food – e razionalizzare anche, in generale, l’offerta museale.
Si tornerà comunque più avanti sulla vicenda dell’arazzo millefiori gelosamente tenuto prigioniero dal Capitolo della Cattedrale di San Zeno – ente su cui è doveroso spendere una franca riflessione – così come si dovrà, da organo di informazione attento anche alle particolarità, iniziare a fare un ragionamento sui palazzi monumentali del 700 Illustre (fruibili a volte nelle giornate del FAI), simbolo della sintesi di alto livello della classe dirigente pistoiese di allora, quando cioè la richezza si traduceva in gusto raffinato e non in devastazione del patrimonio (cortile del palazzo Buontalenti/Sozzifanti e giardino della canonica di San Biagino) come adesso.
In definitiva si vuole ribadire che esistono modelli virtuosi di gestione di risorse destinate alla cultura ma in un proficuo rapporto col territorio: basti vedere la Fondazione CAB di Brescia o la Fondazione Roma. Enti, queste ultime, che non prevedono e non hanno peraltro mai previsto finanziamenti in discutibili e anomali – per una fondazione – settori d’intervento come l’aula liturgica (incompiuta) del santuario di Valdibrana (quando poi quel gioiello barocco della SS. Annunziata cade a pezzi ed è inagibile… nonostante fosse stata segnalata da tempo la condizione di criticità !) o in pregevoli fontane di Buren (500mila euro di mecenatismo… coi soldi altrui, però).
Per concludere, riprendendo il punto di partenza, se spesso capita di non cogliere l’importanza delle risorse investite in cultura, ciò si deve anche alle logiche che avvantaggiano iniziative sterili e autoreferenziali come Dialoghi sull’Uomo a scapito del rafforzamento del legame fra la storia culturale della città e il futuro della stessa.
Quale è, già che siamo in tema, il senso delle sale di palazzo De’ Rossi destinate all’esposizione della collezione di quadri e tele, visto che sono opere di cui la comunità non può fruire e, di fatto, non contribuiscono a far conoscere Pistoia ad un pubblico più vasto?

Cliccare sull’immagine per ingrandirla.
[Domenica 7 aprile 2013 | 10:25 - © Quarrata/news]

2 commenti:

  1. C'è qualcuno che potrebbe dare torto al Sig. Cristofani?

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  2. E bravo. Ma qual è lo spirito di certe associazioni pseudo filantropiche che in realtà sono espressione di "esaltazione" di merito. In esse - e non serve fare i nomi - la categoria di "eletti", lì asociati come benemeriti si auto-attribuiscono doti di magnanimità indiscussa, celebrandola in ogni occasione conferenziale-conviviale, chiaramente a loro riservata. E' la stessa logica che persegue lo stesso fine: non certamente un "bene-comune" ( riferito alla comunità), ma un privilegio personale conquistato nell'affermazione di una èlite di persone dabbene.
    MDB

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