di LUIGI SCARDIGLI
Gradevole lezione di intimità e musica a Casalguidi sotto la
minaccia della pioggia su un palco non riparato
CASALGUIDI. Ha chiuso il concerto con Extraterrestre, perché ormai è un rito forse anche scaramantico. Ma
prima, Eugenio Finardi, ha raccontato ancora una volta la sua vita,
contraddistinta da Patrizia, nome tanto ricorrente quanto incombente, che da’
poi il titolo ad uno dei suoi brani più struggenti, rispolverando la stagione
più fertile della sua vis artistica,
quella datata 1976-77, il biennio di Sugo
prima e Diesel poi, i due Lp che l’hanno
accolto, celebrato ma non debitamente consacrato nell’olimpo degli autori
italiani.
«Sì, è vero – ha ammesso Eugenio Finardi, ma senza un filo di
polemica, tra la cena e l’esibizione –, sono stato forse un po’ sottovalutato,
ma questo è il Paese della cultura classica e uno spirito britannico come il
mio, all’epoca, non andava benissimo. Alla poesia di Tacito, che non conosco e
non mi manca, ho sempre preferito e privilegiato le emozioni quotidiane, quelle
con le quali sono cresciuto, tra l’America e Milano, tra le distese immense e
il cemento. Ma se potessi tornare indietro, rifarei probabilmente le stesse
cose; ad alcuni dei miei colleghi invidio solo, ma senza stizze, il conto in
banca. Ma ogni volta che parlo con i musicisti della mia generazione che sono
ancora sulla cresta dell’onda strumentando in compagnia di turnisti eccellenti,
mi accorgo di essere parecchio stimato e sul limitare del giorno, quando il
rosso del tramonto si fa intenso, credimi, è una cosa che non ha prezzo, questa».
Quando De Gregori cantava Rimmel e Guccini L’avvelenata, Finardi metteva in forno poesie del calibro Non è nel cuore, pezzi avveniristici
come Diesel, provocazioni profetiche
che si chiamano Scuola e Non diventare grande mai.
«Sono cresciuto sotto l’egida dei manifesti incollati al muro
– aggiunge mentre unisce, con una deambulazione che non tradisce fretta, il
breve tratto di strada che separa il Milleluci,
dove ha cenato, dal palco del concerto –; ho preferito rime scomposte,
destrutturate e ho sempre pensato che la musica avesse un enorme potenza, che
dovevo gestire al meglio. È vero, non sono stato celebrato come è successo,
alcune volte anche indebitamente, a molti altri miei colleghi, ma ripeto, non
ho davvero rimpianti: sono riuscito a fare la mia musica sempre, un ottimo mix,
credo, tra impegno, barocco, suggerimenti, blues e rock and roll».
Per il manager, tempo di scambiare due
chiacchiere, non ci sarebbe stato. Per lui, il diretto interessato, sì. E
allora, in quei duecento metri scarsi di strada, mi sono sforzato di
concentrare tutto quello che avevo da chiedergli. Lui, però, non ha soppesato
la mia ansia, ed ha risposto con la calma serafica che ne contraddistingue l’umore,
da sempre, e non solo ora che ha superato i sessant’anni.
«Ho un matrimonio fallito alle spalle con una donna di nome
Patrizia, durato quindici anni e uno iniziato dopo aver smaltito il dolore con
una donna con lo stesso nome. Non è forse un caso, o lo è tra i meandri dell’inconscio,
che nel brano Patrizia, il nome
proprio non venga mai citato. Ho una figlia, di oltre trent’anni, diversamente
abile, che mi ha insegnato un sacco di cose e che non scambierei con nessuno
dei figli belli, sani e forti toccati in dote a molti dei miei amici: il
perturbante non è necessariamente fonte unica di dolore; la diversità di mia
figlia è stata e lo è tuttora un’esperienza inesauribile. Sono un po’
intristito e preoccupato da questo incalzare del capitalismo, con uno Stato che
ha svenduto parte del suo patrimonio pubblico ad incauti imprenditori, che si
sono arricchiti sulle spalle e sui tumori di un’intera città, ad esempio, come
Taranto».
Inizia il concerto e si aprono gli ombrelli.
Giove pluvio, che la sera prima ha obbligato l’organizzazione ad annullare un’esibizione
con un palcoscenico ridicolmente sprovvisto di un riparo superiore, sembra aver
voglia di scherzare. Che piova lo si intuisce nitidamente dalle traiettorie oblique
che le gocce disegnano nel cielo illuminato dai riflettori. Ma non è uno
scroscio torrenziale come tutti temono: pioviggina, poi smette, poi riprende.
Eugenio Finardi si copre con dovizia di particolari: paletot con sopra un
impermeabile, cappello e sciarpone; Giovanni Maggione invece, il giovane
chitarrista che con Marco Lavagna al basso, Paolo Gambino alle tastiere e
Claudio Arfinengo alla batteria completa lo stuolo della band, sfoggia una
tenuta estiva, con maglietta a mezze maniche e una voglia di svisare con la sua sei corde che gli si
legge sul viso. Sara, che proprio ieri sera festeggiava il suo 25esimo
compleanno, è la ragazza-tuttofare: è il tramite tra la consolle e i singoli
strumentisti; offre i plettri a Finardi che perde sistematicamente e controlla,
con la sua leggerezza che è comunque tenace, che l’apparato funzioni al meglio.
In piazza c’è più gente di quanto le
bizzarrie atmosferiche lasciassero prevedere; molti sono degli inguaribili
nostalgici che con le canzoni di Finardi hanno sognato la rivoluzione. Che non
è arrivata, però, perché non poteva arrivare, perché siamo il Paese di Tacito,
che in pochi hanno studiato e pochissimi ricordano.
Cliccare sull’immagine per ingrandirla.
Foto di Luigi Scardigli.
[Martedì 17 settembre 2013 | 11:26 - © Quarrata/news]
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