domenica 28 ottobre 2012

IL METASTASIO DI CARMELO BENE

di Niccolò Lucarelli

Irrompe sul palcoscenico e vi porta il “teatro senza luogo” – Un tormentato alla continua ricerca di luce

PRATO. V’è una nostalgia delle cose che non ebbero mai un cominciamento. Si potrebbe racchiudere in queste parole la drammaturgia di Carmelo Bene, l’unico vero dandy del teatro italiano, che, potendo permettersi di non esistere, si limitò ad apparire. Anche alla Madonna. Spiazzante e dissacrante, Bene irrompe sul palcoscenico portandovi il “teatro senza luogo”, a prima vista difficile da pensare per il pubblico, ma poi facilmente raggiungibile se si riesce a guardare la propria anima. Della sua origine levantina, Bene porta dentro di sé quell’inquietante chiaroscuro barocco, – fatto di nero chiesastico e riverbero dei roghi, bagliori dorati di magnifici palazzi e sofferenze gattopardesche –, e si sforza di illuminarlo partendo dalla propria interiorità, l’unico spazio libero che sia rimasto per l’uomo. Vengono in mente Malaparte e Guareschi, uomini capaci di restare liberi anche nelle prigioni.

Da vero dandy, Bene nutre dubbi sulla sua propria esistenza, per cui anche il suo teatro, avvolto in una cortina di fumo, potrebbe essere soltanto illusione. Resta sempre un fondo di nostalgia, nei suoi spettacoli, in parte per il grande passato di un Mezzogiorno ormai in perdita, in parte per tutte quelle cose che, nell’arte come nella vita, non si riescono a realizzare.
Formatosi artisticamente quasi in clandestinità nelle cantine di Roma, dov’era approdato dalla natia Otranto, ebbe la sua consacrazione a Prato, al Teatro Metastasio, allora diretto da Montalvo Casini, e animato da una compagnia che avrebbe fatto storia in Italia e nel mondo: il Teatro Studio di Paolo Magelli. Fu lui, assieme a Umberto Cecchi, a portare a Prato l’attore salentino, e ad offrirgli il primo palcoscenico importante. All’epoca, e parliamo della seconda metà degli anni Sessanta, il clima culturale pratese era particolarmente vivace, anche grazie all’allora assessore Bruno Dabizzi, e grande era l’interesse nutrito per un teatro, il Metastasio, appunto, che aveva appena riaperti i battenti dopo oltre un decennio di inattività. Affollatissimi gli spettacoli, e altrettanto animato il dopo-teatro, che vedeva ristoranti e caffè l’ideale prosecuzione del foyer, dove tutti discutevano e commentavano quanto visto sul palcoscenico. Casini, uomo di teatro molto attento alla qualità del cartellone nonché grande conoscitore di jazz, lavorava a stretto contatto con Magelli e il Teatro Studio, e grazie a questa collaborazione a Prato si parlò di living theatre, si assisté al Woyzzek di Giancarlo Corbelli dove un giovanissimo Castri interpretava il Tamburo Maggiore. In questo clima di grande fermento, Magelli lanciò l’idea, subito accolta da Casini, di portare a Prato Carmelo Bene, una delle figure più interessanti del teatro emergente di allora.
L’esperienza pratese dell’attore e drammaturgo salentino durò un decennio, dal 1967 al 1977, e proseguì poi anche negli anni successivi, con suoi sporadici ritorni al Metastasio. Ma furono i primi anni quelli veramente decisivi, quando il teatro pratese divenne per Bene una sorta di seconda casa, dove sviluppare e creare quale suo teatro insieme favoloso e filosofico. “Un eretico santo, e un santo eretico, (e bevitore), un genio alla ricerca di una nuova estetica, che diviene per lui una vera e propria occasione di suicidio ”. Paolo Magelli così definisce la figura di Bene e il suo teatro dall’approccio drammatico e tormentato. “La prima volta lo vidi recitare a Bologna, impegnato sulla Divina Commedia. Ancora oggi, per me resta il più grande interprete di Dante che abbia calcato il palcoscenico, ed è il continuatore di quel percorso artistico e umano che dal Poeta arriva sino all’esperienza di Campana”. Uomo di teatro a tutto tondo, filosofo, sperimentatore, favolista, mistico e mago, Bene si trovava a suo agio sia con testi scritti da lui stesso, sia con i testi classici. A questo proposito, restano memorabili le sue interpretazioni di Shakespeare, Molière, così come il pratese Sem Benelli; Magelli afferma con sicurezza come Bene sia stato l’unico artista capace di trarre uno spettacolo bello e interessante da un testo non eccelso come La Cena delle beffe. Interpretando i classici, Bene si dissolveva nella parole altrui, emergendo in modo appartato, come le note non suonate nello spartito di un violino, si assassinava e (ri)appariva nella ricerca della bellezza assoluta. Quella bellezza che aveva affascinati Campana, Artaud, Jarry, Wilde, Dossi, per citare solo alcuni dei letterati che Bene metabolizza nel suo teatro barocco. E con discrezione, quasi si nasconde dietro i loro testi, e volendo essere adesso più precisi, forse il vero luogo del teatro di Bene è appunto la parola, cui dà forma con gioia, furore, crudeltà e anche disgusto.
Il pubblico di allora riservò a Bene un’accoglienza entusiasta e calorosa. In quegli anni, ricorda Magelli, Prato era una città estremamente fiera del proprio teatro, che affollava puntualmente con curiosità e spirito critico. Quello stesso pubblico che acclamava De Filippo, non esitava a confrontarsi con le sperimentazioni di Bene, che in quel momento rappresentavano l’altra faccia del teatro. E proprio in questo spirito emerge lo stretto rapporto che legava il Metastasio al suo pubblico, non un teatro della città, ma un teatro nella città, un patrimonio che almeno due decenni di cattiva gestione hanno dissipato, ma che adesso si sta tentando di ricostituire.
A Prato portò in scena opere importanti, come Don Giovanni e Otello, e gettò le basi per Nostra Signora dei Turchi, “un grande film non ancora capito”, puntualizza Magelli, e che nacque come una lettura scenica cui assisté una ristretta cerchia di amici, al ridotto del Metastasio. Da quell’esperienza, Bene realizzò appunto il film. Ancora a Prato, si cimentò con Majakovskij e il teatro russo d’avanguardia, interpretando La nuvola nei pantaloni, fino al monologo sul suicidio. Magelli ancora ricorda la spettrale e affascinante scenografia: uno Steinway nero sul palcoscenico coperto di seta rossa, e cosparso di bottiglie vuote. Due ore di spettacolo in cui Bene si identifica con Majakovskij, vive il suo dramma personale di poeta in appartenente, due ore culminate con la lacerazione di quella seta rossa che simboleggia la bandiera dell’Unione Sovietica. Un teatro che oscillava fra violenza e dolcezza, che a tratti diventava disarmante, proprio come quella sua Otranto dove la morte diventa poesia. E nel teatro di Bene, amore e morte, spiega Magelli, “sono come due fughe musicali che si rincorrono continuamente, sia nel modo con cui si pone sul palcoscenico, sia nell’attento lavoro di ridefinizione del linguaggio. È come se avesse avuto un terzo occhio che guardava nella sua anima”.
Un personaggio tormentato e inappartenente, Bene, alla continua ricerca di un qualcosa che potesse illuminare quel buio che ci circonda; un filosofo, quindi, apparentabile al Giordano Bruno de Il Candelaio, anch’egli indagatore delle tenebre, e del quale Bene può essere considerato il continuatore. Bruno si chiedeva se fosse l’anima a essere nel corpo, oppure il corpo a essere nell’anima. Allo stesso modo, con Bene ci si chiede se sia il teatro a essere dentro di lui, oppure lui a essere dentro il teatro. Una domanda che può sembrare oziosa, ma che invece, a nostro modesto parere dà la misura della grandezza di un artista che ancora oggi, per certi versi, rimane misterioso, proprio come la sua città, quella Otranto sospesa fra Occidente e Oriente, fra miserie esistenziali e splendori barocchi. Cos’è il teatro di Bene? Crudele ironia, anelito di libertà, consapevolezza del nulla, pietà per l’umana plebe, pietà per le proprie illusioni? È tutto questo e anche qualcosa di più, un di più che per un attimo s’intravede prima che la tenebra lo avvolga di nuovo.

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Il testo è pubblicato al llink: http://www.pratoreporter.it/giornale/cultura/il-metastasio-di-carmelo-bene
[Domenica 28 ottobre 2012 - © Quarrata/news 2012]

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