di Niccolò Lucarelli
Irrompe sul
palcoscenico e vi porta il “teatro senza luogo” – Un tormentato alla continua ricerca di
luce
PRATO. V’è
una nostalgia delle cose che non ebbero mai un cominciamento. Si potrebbe racchiudere in queste
parole la drammaturgia di Carmelo Bene, l’unico vero dandy del teatro italiano,
che, potendo permettersi di non esistere, si limitò ad apparire. Anche alla
Madonna. Spiazzante e dissacrante, Bene irrompe sul palcoscenico portandovi il
“teatro senza luogo”, a prima vista difficile da pensare per il pubblico, ma
poi facilmente raggiungibile se si riesce a guardare la propria anima. Della
sua origine levantina, Bene porta dentro di sé quell’inquietante chiaroscuro
barocco, – fatto di nero chiesastico e riverbero dei roghi, bagliori dorati di
magnifici palazzi e sofferenze gattopardesche –, e si sforza di illuminarlo
partendo dalla propria interiorità, l’unico spazio libero che sia rimasto per
l’uomo. Vengono in mente Malaparte e Guareschi, uomini capaci di restare liberi
anche nelle prigioni.
Da vero dandy,
Bene nutre dubbi sulla sua propria esistenza, per cui anche il suo teatro, avvolto
in una cortina di fumo, potrebbe essere soltanto illusione. Resta sempre un
fondo di nostalgia, nei suoi spettacoli, in parte per il grande passato di un
Mezzogiorno ormai in perdita, in parte per tutte quelle cose che, nell’arte
come nella vita, non si riescono a realizzare.
Formatosi
artisticamente quasi in clandestinità nelle cantine di Roma, dov’era approdato
dalla natia Otranto, ebbe la sua consacrazione a Prato, al Teatro Metastasio,
allora diretto da Montalvo Casini, e animato da una compagnia che avrebbe fatto
storia in Italia e nel mondo: il Teatro Studio di Paolo Magelli. Fu lui,
assieme a Umberto Cecchi, a portare a Prato l’attore salentino, e ad offrirgli
il primo palcoscenico importante. All’epoca, e parliamo della seconda metà
degli anni Sessanta, il clima culturale pratese era particolarmente vivace,
anche grazie all’allora assessore Bruno Dabizzi, e grande era l’interesse
nutrito per un teatro, il Metastasio, appunto, che aveva appena riaperti i
battenti dopo oltre un decennio di inattività. Affollatissimi gli spettacoli, e
altrettanto animato il dopo-teatro, che vedeva ristoranti e caffè l’ideale
prosecuzione del foyer, dove tutti discutevano e commentavano quanto visto sul
palcoscenico. Casini, uomo di teatro molto attento alla qualità del cartellone
nonché grande conoscitore di jazz, lavorava a stretto contatto con Magelli e il
Teatro Studio, e grazie a questa collaborazione a Prato si parlò di living theatre, si assisté al
Woyzzek di Giancarlo Corbelli dove un giovanissimo Castri interpretava il
Tamburo Maggiore. In questo clima di grande fermento, Magelli lanciò l’idea,
subito accolta da Casini, di portare a Prato Carmelo Bene, una delle figure più
interessanti del teatro emergente di allora.
L’esperienza
pratese dell’attore e drammaturgo salentino durò un decennio, dal 1967 al 1977,
e proseguì poi anche negli anni successivi, con suoi sporadici ritorni al
Metastasio. Ma furono i primi anni quelli veramente decisivi, quando il teatro
pratese divenne per Bene una sorta di seconda casa, dove sviluppare e creare
quale suo teatro insieme favoloso e filosofico. “Un eretico santo, e un santo
eretico, (e bevitore), un genio alla ricerca di una nuova estetica, che diviene
per lui una vera e propria occasione di suicidio ”. Paolo Magelli così definisce
la figura di Bene e il suo teatro dall’approccio drammatico e tormentato. “La
prima volta lo vidi recitare a Bologna, impegnato sulla Divina Commedia. Ancora
oggi, per me resta il più grande interprete di Dante che abbia calcato il
palcoscenico, ed è il continuatore di quel percorso artistico e umano che dal
Poeta arriva sino all’esperienza di Campana”. Uomo di teatro a tutto tondo,
filosofo, sperimentatore, favolista, mistico e mago, Bene si trovava a suo agio
sia con testi scritti da lui stesso, sia con i testi classici. A questo
proposito, restano memorabili le sue interpretazioni di Shakespeare, Molière,
così come il pratese Sem Benelli; Magelli afferma con sicurezza come Bene sia
stato l’unico artista capace di trarre uno spettacolo bello e interessante da
un testo non eccelso come La
Cena delle beffe. Interpretando i classici, Bene si dissolveva
nella parole altrui, emergendo in modo appartato, come le note non suonate
nello spartito di un violino, si assassinava e (ri)appariva nella ricerca della
bellezza assoluta. Quella bellezza che aveva affascinati Campana, Artaud,
Jarry, Wilde, Dossi, per citare solo alcuni dei letterati che Bene metabolizza
nel suo teatro barocco. E con discrezione, quasi si nasconde dietro i loro
testi, e volendo essere adesso più precisi, forse il vero luogo del teatro di
Bene è appunto la parola, cui dà forma con gioia, furore, crudeltà e anche
disgusto.
Il pubblico di
allora riservò a Bene un’accoglienza entusiasta e calorosa. In quegli anni,
ricorda Magelli, Prato era una città estremamente fiera del proprio teatro, che
affollava puntualmente con curiosità e spirito critico. Quello stesso pubblico
che acclamava De Filippo, non esitava a confrontarsi con le sperimentazioni di
Bene, che in quel momento rappresentavano l’altra faccia del teatro. E proprio
in questo spirito emerge lo stretto rapporto che legava il Metastasio al suo
pubblico, non un teatro della
città, ma un teatro nella
città, un patrimonio che almeno due decenni di cattiva gestione hanno
dissipato, ma che adesso si sta tentando di ricostituire.
A Prato portò in
scena opere importanti, come Don
Giovanni e Otello,
e gettò le basi per Nostra
Signora dei Turchi, “un grande film non ancora capito”, puntualizza
Magelli, e che nacque come una lettura scenica cui assisté una ristretta
cerchia di amici, al ridotto del Metastasio. Da quell’esperienza, Bene realizzò
appunto il film. Ancora a Prato, si cimentò con Majakovskij e il teatro russo
d’avanguardia, interpretando La
nuvola nei pantaloni, fino al monologo sul suicidio. Magelli ancora
ricorda la spettrale e affascinante scenografia: uno Steinway nero sul
palcoscenico coperto di seta rossa, e cosparso di bottiglie vuote. Due ore di
spettacolo in cui Bene si identifica con Majakovskij, vive il suo dramma
personale di poeta in appartenente, due ore culminate con la lacerazione di
quella seta rossa che simboleggia la bandiera dell’Unione Sovietica. Un teatro
che oscillava fra violenza e dolcezza, che a tratti diventava disarmante,
proprio come quella sua Otranto dove la morte diventa poesia. E nel teatro di
Bene, amore e morte, spiega Magelli, “sono come due fughe musicali che si
rincorrono continuamente, sia nel modo con cui si pone sul palcoscenico, sia
nell’attento lavoro di ridefinizione del linguaggio. È come se avesse avuto un
terzo occhio che guardava nella sua anima”.
Un personaggio
tormentato e inappartenente, Bene, alla continua ricerca di un qualcosa che
potesse illuminare quel buio che ci circonda; un filosofo, quindi,
apparentabile al Giordano Bruno de Il
Candelaio, anch’egli indagatore delle tenebre, e del quale Bene può
essere considerato il continuatore. Bruno si chiedeva se fosse l’anima a essere
nel corpo, oppure il corpo a essere nell’anima. Allo stesso modo, con Bene ci
si chiede se sia il teatro a essere dentro di lui, oppure lui a essere dentro
il teatro. Una domanda che può sembrare oziosa, ma che invece, a nostro modesto
parere dà la misura della grandezza di un artista che ancora oggi, per certi
versi, rimane misterioso, proprio come la sua città, quella Otranto sospesa fra
Occidente e Oriente, fra miserie esistenziali e splendori barocchi. Cos’è il
teatro di Bene? Crudele ironia, anelito di libertà, consapevolezza del nulla,
pietà per l’umana plebe, pietà per le proprie illusioni? È tutto questo e anche
qualcosa di più, un di più che per un attimo s’intravede prima che la tenebra
lo avvolga di nuovo.
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Il testo è pubblicato al llink: http://www.pratoreporter.it/giornale/cultura/il-metastasio-di-carmelo-bene
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[Domenica 28
ottobre 2012 - © Quarrata/news 2012]
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