di Niccolò Lucarelli
VENEZIA. Una Biennale della crisi quella in corso
di svolgimento nei consueti spazi dell’Arsenale. Evidente come non mai, la
frattura fra le “archistar” da una parte, a fare dell’architettura una
disciplina autoreferenziale, e l’architettura del quotidiano dall’altra,
costretta ad affrontare spinosi problemi come la saturazione dello spazio
urbano, dell’inquinamento e dell’alienazione che ne consegue.
Nelle parole del
curatore David Chipperfield, questa XIII edizione della Biennale d’Architettura
può essere vista come la prosecuzione dell’edizione del 1985, quando si pensò a
una grande kermesse a metà fra una mostra e un forum.
Quello che emerse, all’epoca,
fu il senso di quella grande comunità che avvicina gli architetti provenienti
da Paesi ed esperienze profondamente diversi, quella comunità che, nelle parole
del curatore, è la chiave di volta di questa Biennale, che vuole approfondire e
condividere con il pubblico quelle che sono le radici comuni dell’architettura,
radici che sono da intendersi principalmente nel senso dell’elaborazione
concettuale dei progetti, partendo da problemi ed esigenze comuni, alzando così
il velo sulle condizioni in cui l’architettura si trova a operare. Condizioni
non sempre facile, siano esse morfologiche o politiche, ma con le quali è
necessario giungere a un compromesso. In aperta polemica con le pacchianerie
delle “archistar”, Chipperfield ha inteso ritrovare la normale architettura del
quotidiano, quella che veramente è aperta e condivisibile con il pubblico.
Condizione irrinunciabile, considerando il profondo impatto che questa
disciplina ha sul territorio e sulle persone. Non pochi sono gli esempi, nel
mondo, di importanti trasformazioni negli stili di vita e nella conformazione
del territorio, non ultimi, i vasti progetti urbanistici delle periferie
cinesi. Il risultato estetico non sempre è appagante, ma interrogato da chi
scrive sull’attuale concezione della bellezza in architettura, Chipperfield ha
risposto non senza difficoltà, che l’architettura non può essere considerata
come un’arte vera e propria, per cui l’estetica si raggiunge quando si
raggiunge la funzionalità del progetto, alla quale appunto la bellezza è
subordinata.
Non è semplice
organizzare una mostra d’architettura che riesca a catturare l’interesse di un
pubblico di non addetti ai lavori, per cui, oltre ad esporre i progetti, è
necessario corredarli della necessaria spiegazione, dimodoché chiunque possa
“entrare” nell’opera. Volendo analizzarla da un punto di vista filosofico, si
potrebbe definire questa Biennale come una sintesi fra la realizzazione del sé
(attraverso un progetto), e il divenire (del paesaggio che sarà interessato da
quel progetto). Richiamando direttamente queste “common grounds”, le radici
comuni, da cui il titolo, si può dialogare sul futuro dell’architettura.
Tuttavia,
nonostante le premesse, abbiamo visitata una Biennale sottotono, specchio di
una situazione riassumibile nell’affermazione del gruppo inglese Fat, secondo
cui le affinità architettoniche si realizzano quando un architetto copia da un
altro. C’è del vero, perché al momento le idee originali sono poche. Segnaliamo
il progetto di riqualificazione dell’area di Kowloon East, a Hong Kong, dove
sorgeva un ex aeroporto, riqualificazione curata dallo studio londinese The
Oval Partnership, diretto da Christopher Law. Per il resto, il cubo e il
parallelepipedo restano le forme progettuali più diffuse, dedicate a un’architettura
globalizzata di espansione urbana incontrollata. I problemi sono ovunque gli
stessi: sovrappopolazione, approvvigionamento energetico, inquinamento, e l’impressione
è che l’architettura sia in affanno, incapace di mediare fra l’insediamento in
sé, e il territorio su cui si sviluppa. Essendo l’architettura principalmente
rivolta a un futuro ancora indecifrabile, si rischia di costruire edifici
asettici, sospesi in un limbo temporale, senza storia né radici. Un trend
iniziato a Marsiglia negli anni Cinquanta da La Corbusière con la sua “Unità
abitativa”, e mai veramente invertito.
Buone
impressioni, e lo scriviamo con orgoglio, vengono invece dal Padiglione Italia,
curato da Luca Zevi, e prosecuzione del discorso iniziato alla Biennale del
2010, quando si affrontò il tema del paesaggio agricolo e dell’energia
rinnovabile. Quest’anno si parla di paesaggio industriale, e Zevi propone le
“piattaforme produttive”, ovvero macro-regioni industriali armonizzate da un
punto di vista estetico con il paesaggio circostante, energeticamente
autosufficienti, e collegate fra loro da una serie di infrastrutture, così da
agevolare anche i collegamenti con i mercati, a tutto vantaggio della
competitività. Segnali positivi non recepiti da un’Italietta in difficoltà,
dove anche l’architettura cade a pezzi. Lo dimostra il recente sisma in Emilia,
dove la maggior parte degli edifici industriali, si è sfaldata come neve al
sole, segno evidente di un’architettura industriale di pessimo livello. Infine,
segnaliamo lo stato di abbandono in cui versano gli spazi dell’Arsenale,
patrimonio storico dell’architettura italiana, che, ironia della sorte, ospita
una rassegna dedicata al settore. Ma l’Italia, si sa, è la terra delle
contraddizioni.
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[Giovedì 25
ottobre 2012 - © Quarrata/news 2012]
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