di Luigi
Scardigli
PISTOIA. Violenza e perdono, amore e perversione, tracotanza. Kim Ki-Duk
ha miscelato queste doti e ne ha tirato fuori forse l’inevitabile epilogo
sociale, più che il titolo del suo ultimo capolavoro, Pietà, vincitore, plebiscitario, all’ultima rassegna
cinematografica di Venezia e in programmazione in città grazie alla proiezione
del cinema Globo.
Il filone di quest’ultima mannaia cinematografica del visionario regista sudcoreano non si
discosta molto dalle ansie delle sue precedenti pellicole; aumenta, comunque
con piacevole parsimonia, la loquacità complessiva della pellicola, pur senza
farle soffrire la pittura delle immagini e la sua devastante potenza
surrealista.
È la storia di uno spietato esattore delle imposte criminali del Sudest, che solo dopo la
ricongiunzione con la madre, che lo aveva abbandonato in fasce, inizia la
propria conversione, un tragico, cruento ed estremo ripensamento che non farà
che aggiungere e addurre dolore a dolore, morte a morte.
La crudezza di alcune scene e il complessivo decadente
incedere della trama, che oscilla, con orientale originalità, tra gli
angoscianti primi piani di Sergio Leone e la macchinosità delle procedure
ritmiche di Quentin Tarantino, pietrifica letteralmente l’attenzione dello
spettatore e soprattutto gli impone, contemporaneamente, un crudo esame di
coscienza, che si materializza in un inno ai valori più antichi della famiglia
e premia, con una medaglia, fuori conio, l’amore verticale, anche fra complessi
edipici ed elettrici, quello che va di genitori in figli.
Un film che ha tutta l’aria, da capolavoro qual è, di essere
un tragico monito precursore della drammaticità dell’elastico economico che il
mondo intero sta attraversando, con uno sguardo, chimico e tetro, rivolto al
nascente industrialismo orientale.
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[Giovedì 25 ottobre 2012 - © Quarrata/news 2012]
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