sabato 13 ottobre 2012

E ‘JOHN GABRIEL BORKMAN’? NON MI È PIACIUTO, PERÒ…


di Luigi Scardigli

Gli attori hanno fatto a gara a superarsi, uno più bravo dell’altro, in novanta minuti di saggio puro

PISTOIA. Per onestà intellettuale dovrei esordire col dire che non mi è piaciuto.
Ma farei un torto all’oggettività, nel senso più geometrico del termine, e al gradimento, totale, riscontrato dalla sala, gremita, del Manzoni, che ha assistito, salutandolo con un’ovazione lunga e rumorosa, tutto il cast di John Gabriel Borkman, il dramma di Ibsen riadattato per il palcoscenico dal regista Piero Maccarinelli e che ieri sera ha inaugurato la stagione pistoiese.

Gli appunti, che suonano sinistri e un po’ sofistici, si muovono su piano squisitamente umorale, perché sono profondamente convinto che traghettare Ibsen nel terzo millennio – e come lui chiunque altro meriti di essere riletto, studiato e non dimenticato – non voglia assolutamente dire riprodurlo con spasmodica fedeltà, vestendo dentro, fuori e nel linguaggio gli attori che lo interpretano. Che hanno fatto a gara a superarsi, uno più bravo dell’altro, in novanta minuti di saggio puro, dove ognuno, a diverse latitudini spazio-temporali, ha dato lustro di una meravigliosa padronanza scenica e una grande dimestichezza emotiva.
Ma proprio durante la prima parte del dramma, quella occupata dalla fredda, distante, subdola, pietosa e ferrea conversazione tra le due sorelle (Della Rovere e Mandracchia), ho capito a cosa si riferisse Lucrezia quando, nell’intervista rilasciatami nei giorni scorsi, mi ha parlato di questo testo come di un convincente e impegnativo passaggio professionale. Una scatola dura, profonda, che preferisce non ammettere parodie, perlustrazioni, sovrapposizioni, contaminazioni, se non quelle sceniche, che sono sì, minimaliste, ma geometricamente furiose, e ammantano l’intera immagine, tanto al pianto terra, quanto al primo, nel bosco gelido, di quel fardello (u)morale che striscia durante l’intera rappresentazione.
Massimo Popolizio, il bancario deriso, arriva in scena quando le sorelle, che ne hanno ipocritamente condiviso la passione, hanno già segnato il ritmo, con un figlio legittimo-illegittimo conteso per un reciproco ricatto e merce di scambio e libertà fino alla sua ribellione, quando riesce a scappare dai complessi edipici indottigli dalla madre e superare la balbuzie: si capisce già, nonostante non sia sul palco, né si veda, di che pasta è fatto quest’uomo che avrebbe sbancato il mercato se solo gli avessero concesso il tempo di riaccreditare i titoli sottratti, indebitamente, ma lungimirantemente, ai suoi risparmiatori.
Gli otto anni di reclusione, nei quali espia virtualmente anche un matrimonio combinato con la sorella non desiderata, ne hanno solo accentuato le visioni e indebolito il corpo, prostrato dal totale abbandono di amici, amanti, illusioni. E soldi.

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Foto di Luigi Scardigli.
[Sabato 13 ottobre 2012 - © Quarrata/news 2012]

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