di Niccolò Lucarelli
Il regista
ci parla dell’opera di Ibsen in prima nazionale al Manzoni
PISTOIA. Sta per partire in prima nazionale il Borkman
di Ibsen e incontriamo il regista Piero Maccarinelli.
Lei ha chiuso la scorsa
stagione teatrale alla Pergola con una commedia di Marivaux, e sta per aprire
quella del Manzoni con una dramma di Ibsen, scritto alla fine dell’Ottocento. A
cosa è dovuto questo salto temporale?
Non
direi che, a ben guardare, il salto temporale sia poi così evidente. Mi spiego:
amo la drammaturgia in generale e le storie sulle dinamiche familiari,
ambientate in contesti diversi. In Marivaux, avevamo padri e figli alle prese
con l’innamoramento, Ibsen ci presenta invece un figlio con un padre e due madri.
Per cui, la continuità, nella drammaturgia, c’è. Oltre a questo, sono
affascinato dalla scrittura teatrale dei grandi autori, e Marivaux e Ibsen, al
di là delle epoche diverse nelle quali hanno vissuto, sono appunto grandi
autori; non ho una visione monomaniacale della drammaturgia, per me non esiste
il teatro “classico”, o “contemporaneo”, ho una visione drammaturgica senza
soluzione di continuità.
Adesso,
in Italia, mi sembra ci sia un grande desiderio di scelte radicali che io non
condivido; preferisco ritrovare, di volta in volta nei diversi testi a autori
che affronto, me stesso e gli attori che dirigo. E il Borkman di Ibsen è un
appuntamento che, nella mia carriera, prima o poi sarebbe arrivato. Prima di
affrontarlo, ho indagato tanti generi teatrali, dalla grande tragedia al teatro
di boulevard, alla commedia brillante, perciò mi definisco un eclettico. Ma
questo, in Italia spiazza non poco critica e pubblico, poiché si preferisce
inquadrare persone e opere all’interno di etichette predefinite.
Che importanza riveste l’estetica,
nel suo teatro, sia da un punto di vista della drammaturgia, che della
scenografia?
Non
posso dare una risposta univoca, poiché l’estetica dipende dalle situazioni, e
del resto il teatro non è recitabile in un unico modo. Parlando dell’approccio
degli attori, posso dire che ce ne sono di consapevoli, e altri che lo sono
meno, e allora si rende necessario un intervento più marcato del regista.
Parlando del Borkman,
almeno quattro degli attori hanno attorno a sé una luminosa aurea
drammaturgica, con una visione complessiva dell’opera e una grande
consapevolezza del ruolo che ricoprono all’interno di essa. In casi come
questo, a livello di regia si discutono più soluzioni con gli attori stessi,
per cui il risultato finale è il frutto di una mediazione attori-regista. Ma,
ripeto, non c’è un’unica strada per ottimizzare la recitazione.
Parlando
di scenografia, anche qui il discorso è molto simile. Di volta in volta, lo
spazio del palcoscenico ha dimensioni diverse. Ad esempio, in Colazione da Tiffany, avevo a
disposizione una scenografia complessa, articolata su due piani. In Il gioco dell’amore e del caso,
al contrario, l’impianto era molto più semplice, giocato su fondali olografici.
E ancora, nel Borkman
è tutto più vuoto, ci sarà una scatola di velluto liscio che crea un effetto
cinematografico. In conclusione, al di là delle esigenze del regista, molto
dipende dai mezzi finanziari a disposizione. La genialità di tanti registi è
legata alle possibilità di esprimere questa stessa genialità, e oggi, in questo
difficilissimo momento economico, esistono grossi problemi tecnico-finanziari
nella gestione dei teatri, che non sono da sottovalutare. La questione va
affrontata, ed è ovvio che si debba ogni giorno fare i conti con queste
ristrettezze; l’unica soluzione è ottimizzare le risorse, senza che la qualità
estetica del teatro ne soffra troppo.
In mezzo alla volgarità
quotidiana, offerta dalla politica, dai giornali, dalla televisione, il teatro
sembra essere rimasto il solo spazio maturo di dibattito sulla società. Quale
messaggio affida al suo teatro?
Nel
caso del Borkman,
Ibsen ha voluto affrontare il tema tragico e affascinante dell’utopia; centro
del dramma è un uomo che vuole rendere felice il mondo, ma riesce soltanto a
distruggere l’esistenza di coloro che ha intorno. Non a caso, il grande Bergman
ha esaltato l’egotismo dell’artista che crea intorno a sé ignorando gli altri.
Da parte mia, ero interessato a capire come il discorso di Ibsen sulla felicità
umana si trasferisce su persone più giovani di una generazione, e che hanno
vissuto la fine dell’ultima utopia, ovvero la caduta del Muro di Berlino nel
1989. Il testo, nella traduzione ormai classica di Claudio Magris, ha subito un
importante lavoro di sintesi, poiché ho preferito eliminare quelli che in gergo
i chiamano “riccioli”, per arrivare direttamente all’essenza del messaggio
drammaturgico. E, a differenza di quanto accadde al testo di Marivaux, non ho
ritenuto opportuno apportare modifiche al registro linguistico.
Ho
scelto di ambientare l’opera nel Novecento, poiché è stato l’ultimo secolo nel
quale si sono sviluppate e sono morte le utopie; se avessi scelto un’ambientazione
contemporanea, dei nostri giorni, la grandezza del Borkman avrebbe completamente perso le sue basi.
Cosa resta, infatti, delle utopie, degli ideali, oggi, in questa Italia
sfregiata ogni giorno dalla corruzione, dalla mancanza di etica, dalla
volgarità, dal materialismo?
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[Giovedì 11
ottobre 2012 - © Quarrata/news 2012]
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