giovedì 30 maggio 2013

LA MONTAGNA E LA MEMORIA

CUTIGLIANO. I ricordi di Daniele Petrucci di Pian degli Ontani classe 1928, per non dimenticare da dove veniamo e riflettere su dove stiamo andando. Una finestra spalancata sul recente passato della Montagna Pistoiese, dove le condizioni di vita erano pressoché le stesse di quelle di 5 e forse più secoli fa, la progressiva conquista del benessere e il rapido declino. Un grido di dolore ma anche un monito per le prossime generazioni e una condanna inappellabile a burocrati ed amministratori che dovevano, potevano e non hanno fatto.
mar. ferr.

RIFLESSIONI E RICORDI DI UN UOMO COMUNE (DANIELE PETRUCCI) DIARIO O PROMEMORIA DI CHI HA SEMPRE PRESENTE COME SI VIVEVA 70 ANNI FA IN QUESTA MONTAGNA DELLA VAL SESTAIONE

Ricordo ancora i racconti del nonno, quando ero piccolo, davanti al focolare del camino. Racconti della loro tragica vita che trascorrevano in questa valle del Sestaione, gente povera che abitava in piccole borgate con vari nomi: Il Piano, Il Poggetto, Casa Baldino, Casa di Sotto, La Ciliegia, Casa D’Elisa, Le Fontanelle, Serrin dell’Erba, La Motta, Pian della Quercia, Casa di Francia, Il Prato, Il Balzone, La Peschiera, La Frassa, Caselmori, Il Serinaccio, Il Catino, Pian di Novello. Queste borgate fanno parte del paese di Pian degli Ontani dal quale distano da metri 400 a km 2 fino ai km 5 di Pian di Novello, con una altitudine sopra il livello del mare da 700 a 1200 metri.

Pian degli Ontani è un paesino con chiesa Parrocchiale e poche case. Riferendomi al 1930, esisteva una piccola bottega di alimentari dove si trovava la pasta esposta dentro i corbelli, coperti da un telo a rete, la merce richiesta veniva incartata in carta di paglia.
Molto usata era la farina di granoturco e farina di grano, contenuta in balle da 60 – 70 Kg, poi altra merce come baccalà, aringhe, formaggi, pane impastato a mano e cotto al forno a legna e poche altre cose.
Dal paese, per raggiungere le borgate erano tutti sentieri percorribili a piedi e portando in spalla tutto quello che era necessario per il bisogno durante l’anno. Le borgate erano formate da case capanna con camino col focolare che serviva per il riscaldamento e fare da mangiare.
Per dormire erano camere stamberga dove dormivano 4, 5, 6 persone su letti pancarella con sacconi riempiti di paglia o scartocci di granoturco. Per salire in queste camere stamberga usavano anche scale di legno a cavicchi. I solai erano fatti con tavole molto sconnesse.
Nell’inverno il soffitto del tetto veniva ricoperto da brina e ghiaccio e nelle camere gelava l’orina nel vaso da notte.
Le case capanna erano sprovviste di luce e di acqua, per fare luce venivano usate delle ampolline con uno stoppino ad olio, in cucina era sufficiente il lume del fuoco del camino.
Il fuoco veniva alimentato con legna morta (secconi) recuperati durante l’estate da donne e ragazzi nei boschi e portati in spalla fino alle loro case capanna dove venivano accatastati fuori all’aperto e poi adoperati per il fabbisogno per riscaldarsi e fare da mangiare.
Il procurarsi dell’acqua per la necessità giornaliera era una tragedia, veniva recuperata in recipienti (secchie e brocche) alle sorgenti, fossi e fossetti che erano distanti dall’abitazione da 100 a 400 metri.
Nell’inverno, con la neve e la bufera in certi periodi, la gente doveva stare chiusa in casa e attendere il momento più propizio (l’ora del poverino) per andare a fare rifornimento con i loro recipienti per il fabbisogno.
Certi inverni, più rigidi, per uscire di casa a procurarsi l’acqua e la legna uscivano dalle finestre del primo piano perché la neve ostruiva le uscite principali. Per la pulizia personale avevano il (lagamano) o lavamano chiamato nell’uno o nell’altro modo a seconda delle persone, corredato dalla catinella, il brocco, il piattino e il porta asciugamano.
Per farsi il bagno usavano un mastellone di lamiera, per lavare e pulire il vestiario veniva usato un recipiente in terracotta chiamato “conca” il quale veniva riempito di panni sporchi, alla sommità veniva posto un panno di juta chiamato il “cenerone” il quale veniva riempito di cenere e sopra versata acqua bollente che filtrando attraverso la cenere arrivava ai panni ed usciva all’estremità bassa della conca da una canna chiamata “cannone” finendo in un recipiente. L’acqua in uscita veniva chiamata “ranno”.
Dopo questa operazione venivano tolti i panni dalla conca e messi in una mastella o in un cestone e portati a spalla al fosso più vicino che sbarrato con zolle e pietre, formava un pozzo d’acqua dove, su un piastrone posto ad un lato, le donne lavavano i panni tolti dalla conca. Questa operazione era chiamata “bucato”.
Il solito pozzo era anche usato per lavare i panni del fabbisogno giornaliero.
I servizi igienici, come quelli che oggi chiamiamo “bagno”, completi di vasca, bidet, water e lavandino, a quei tempi non esistevano.
Allora esisteva il vaso da notte, un recipiente in ferro smaltato dove venivano fatti i bisogni durante la notte ed anche il giorno e il contenuto veniva buttato nei campi o nei boschi.
In vicinanza alla casa esisteva il “cacatoio”, consisteva in un capannello di circa un metro quadrato fatto in tavole, ruggiole o paglia. Dentro c’era un palchetto a tavole con un buco o feritoia dove venivano fatti i bisogni. Sotto al palchetto venivano messe delle foglie che in primavera erano usate come concimazione per campi e sementi. Per carta igienica venivano usate foglie di castagno o carta di paglia. Chi non aveva queste strutture doveva arrangiarsi andando nell’orto, nei campi, nella selva, dietro un muro o un grotto.
Riflettete! Pensate al disagio di questa povera gente, specialmente bambini ed anziani.
Durante l’inverno, da Ottobre a Maggio, gli uomini boscaioli con alcuni ragazzi più grandi emigravano in Corsica, in Sardegna o in Maremma a tagliare boschi e fare carbone. Il loro corredo per la partenza era costituito da una cassetta di legno o un sacco dove mettevano dentro il paiolo, qualche gamella, qualcosa da vestire e poco altro, portavano con loro anche il barletto per contenere l’acqua.
Il trasferimento avveniva tramite un barroccio o a piedi con il bagaglio in spalla fino alla stazione del treno che era a Pracchia o a Fornoli da dove partivano per la loro destinazione.
Anche i pastori partivano a piedi con i loro greggi per il Ferrarese o la Maremma e tornavano a primavera.
Alla casa capanna rimanevano donne e i numerosi bambini che insieme agli anziani (donne e uomini) dovevano affrontare tutte le insidie dell’inverno e dei malanni.
Il loro sostentamento alimentare era, al primo posto, la farina di castagne, patate e altri alimenti raccolti durante la stagione estiva.
Poi a completare i disagi ci furono la prima guerra mondiale (1915 – 1918) e dopo la seconda (1940 – 1944) dove dal 1943 al 1944 anche la nostra valle fu teatro di battaglia con devastazione morti e fame; le persone erano diventate irriconoscibili.
Finalmente arrivati agli anni 1950 – 1960 iniziò il risorgimento e con spirito, tenacia e sacrifici i valligiani cominciarono a riordinare le cose, fare le strade rotabili fino alle loro borgate, allacciare le sorgenti e portare l’acqua alle case facendosi così la vera stanza da bagno, si completa finalmente la rete elettrica in tutta la valle. Tante altre cose vengono fatte, viene messo il riscaldamento a gasolio. Finalmente sembra che il valligiano sia felice e contento.
Ma il destino dice che il valligiano non deve essere mai troppo agiato, non è mai stato riconosciuto nel passato e non deve avere riguardi nel presente, così deve subire tasse da comuni, province, comunità montane e altri enti su beni e proprietà messi insieme con grandi sacrifici. Non vogliono riuscire a capire e sapere che il valligiano è quello che difende la montagna e salva la pianura.
Agiscono senza riflettere applicando le disumane e vergognose imposizioni fatte da quei politici o amministratori a danno di persone che hanno vissuto e vivono una vita disastrata e dimenticati da tutti.
Ricordo ancora quando il nonno, arrivati a fine estate, radunava i suoi figlioli e gli diceva: ragazzi andate a pulire il “goraio”.
Il goraio era un solco scavato con picco, zappa e pala e partiva da un vallino attraversando tutta la costa soprastante alle case capanne e ai coltivati.
Il goraio faceva defluire tutte le acque piovane e alluvionali al fosso più vicino e nella zona non c’era un solo goraio infatti c’era quello del Pianone, quello della Ciliegia ed altri, ma tanto per capirsi più in breve, sopra a tutte le borgate esisteva un goraio, in più, venivano fatti sciacqui alle strade, nei campi lavorati per la semina di grano, segale, patate ecc., insomma veniva fatto un solco trasversale nel campo per fermare le acque e la terra.
I fossi venivano protetti sui lati con pietre murate a secco poi puliti da fogliame e da residui ingombranti come legna morta ecc., così le acque trovavano il percorso libero per defluire al fiume e di li al mare. In questo modo si evitavano smottamenti e alluvioni. Le selvi (castagneti) erano curate con sciacqui e parate; queste erano formate da muretti in pietra a secco riempiti con fogliame, sassi e terriccio, così venivano dei piccoli ripiani che permettevano di rifermare le acque e le castagne al tempo della raccolta.
I boschi venivano tagliati con molto mestiere, veniva fatto legna, carbone, bracia che con il ricavato, molto sudato serviva per integrare il far bisogno per la sopravvivenza. La frasca superflua veniva disposta in stradelli e in zone dove credevano opportuno salvaguardare il terreno.
Le piazze, dopo fatto il carbone, venivano seminate con segale ed erbe così da servire per il pascolo di pecore, mucche, lepri ed altra selvaggina. Anche nei boschi che venivano tagliati, per due o tre anni crescevano abbondanti erba, lamponi, fragole, more, funghi, sambuco rosso, insomma una ricchezza per la selvaggina e una fonte di risorse per il montanaro che vi abitava. Avrei ancora tante cose da raccontare, ma tanto credo che a nessuno interessi di ascoltare, tanto più a quelli che, con la loro parlantina, incantano tutta la povera gente.
Dovrebbero essere proprio loro ad intervenire e riconoscere i sacrifici del montanaro in quanto la sua presenza è la salvezza della montagna della pianura e di tutta la natura.
Però voglio ancora dire qualcosa che in questo paesino di Piano degli Ontani, formato da tante borgate, settanta anni fa vi erano circa 800 pecore, circa sessanta mucche oltre a maiali e polli.
Venivano coltivati grano, segale, patate e raccolte le castagne la cui farina era il cibo principale. La montagna era un giardino, esistevano più di trenta capanne in pietra murata a secco e coperte a paglia o lamiera, necessarie per riporre il fieno e alloggiare il bestiame.
Oggi è una tristezza, sono tutte franate, è una tragedia di abbandono. La loro costruzione era avvenuta senza tanta burocrazia e senza imposizioni nella costruzione.
Tutte queste capanne erano distribuite secondo le necessità delle borgate dove vivevano i montanari in case capanna anche queste auto costruite.
Queste abitazioni venivano chiamate “case coloniche” e non pagavano nessuna tassa.
Come già vi ho detto, dopo il 1955 è iniziato il cambiamento, i montanari con grandi sacrifici hanno cominciato a migliorare il modo di vivere in quanto provenivano da secoli di malessere.
Cominciarono quindi a restaurare le case capanna facendoci servizi sanitari, rifacendo tetti, operando rifiniture interne e portando l’acqua in casa.
Fu rifatta qualche capanna per il bestiame, pecore mucche e polli, ripari per rimettere la legna, insomma tutte opere indispensabili ai bisogni del montanaro, per fare da mangiare, per riscaldarsi e per ripararsi dalle insidie atmosferiche.
Con l’avanzare del progresso sono stati acquistati trattori, falciatrici, spacca legna, macchine per pressare il fieno ecc.
Per mettere a riparo queste nuove macchine, in molti casi, non erano sufficienti le vecchie capanne per cui sono state costruite nuove capanne o rimesse, non so come le posso chiamare.
Nel 2005 o nel 2006, non so l’anno preciso, le istituzioni, gli enti, non so come si chiamano, con le loro leggi hanno messo al bando tutte queste necessità indispensabili definendoli “fabbricati fantasma”, hanno imposto di pagare sopra tasse come l’Ici, cose ridicole, comiche, visto l’uso di questi fabbricati abitati da galline, conigli, pecore, mucche o ancor meglio ricovero per legna.
Chi attua queste leggi sono persone, le quali, non arrivano a capire che sottovalutano questi esseri umani che da secoli con il loro sudori hanno trasformato questa montagna in un giardino, patendo fame e sacrificando la propria libertà lavorando giorno e notte. Essi non hanno senso di responsabilità nell’aggredire famiglie di anziani che vivono con un sostentamento di pensione da 500 a 800 Euro al mese.
In altri luoghi sono state costruite case favolose, ville, palazzi, castelli in prossimità di laghi, coste, colline e periferie di paesi e città e tutto per lucro.
E’ più facile mettere alla fame e alla disperazione chi non ha possibilità di difesa sacrificando l’uomo, l’agricoltura, la difesa della montagna e della natura. Oggi, ci sarebbe ancora qualche montanaro che avrebbe la passione di lavorare e curare la montagna, ma queste imposizioni di tasse impediscono di farlo.
E’ una vergogna non voler tener conto della montagna e dei suoi montanari che con i loro sacrifici l’avevano salvata e fatta prosperare, così facendo da un giardino tornerà ad essere un deserto di boschi tralasciati, campi abbandonati in via di estinzione, selvi “inselvatichite”, frane, alluvioni che si ripercuoteranno in pianura su paesi e città.
Tutto questo deriva dall’abbandono della montagna, colpa di politici, amministratori, enti regionali, provinciali, comunali e comunità montane.
Tutti questi dovrebbero essere più attenti alla realtà e ai bisogni della montagna e riconoscere ai suoi abitanti quello che fanno e che hanno fatto… con tanti sacrifici.

Voglio sfogare tutta la mia amarezza con questi semplici versi:

Montagna Pistoiese, Libro Aperto
era un deserto e diventò un giardino;
e di un giardino tornerà un deserto.
Dove fiorisce il faggio, l’abete e il pino
sarà solo rifugio a lupi e tassi;
oh! schiavo montanar che vita passi!!

Scritto l’anno 2012 al Serrin dell’Erba da Daniele Petrucci nato a Pian degli Ontani il 14 Maggio 1928.

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[Giovedì 30 maggio 2013 | 13:08 - © Quarrata/news]

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