venerdì 13 settembre 2013

GAIA SCUDERI E LA DANZA


di LUIGI SCARDIGLI

Sul palco del Las Palmas breve ma intensa esibizione dell’artista fiorentina con allieve e ospiti

FIRENZE. Gli eterei lineamenti del viso potrebbero indurre in fallo: quando danza, Gaia Scuderi, trasuda energia, eleganza, equilibrio, rigore, tutte accezioni che sembrano non appartenerle, che sembrano non appartenere alla delicatezza del corpo, della voce e del viso, specialmente a recita conclusa, quando indossato un giacchetto che la preserverà da una serata molto autunnale racconta brevemente la sua vita e disegna il futuro.

«La mia è una danza sperimentale – sussurra Gaia Scuderi, con la leggerezza di chi vorrebbe non dover aggiungere altro ai ritmici movimenti effettuati pochi istanti prima –, un mix di esperienze anche e soprattutto culturali: classico e moderno, arabo e spagnolo. Lo farò fino a quando avrò la percezione di poter dire e dare ancora qualcosa e fino a quando avrò l’energia per poterlo offrire al meglio: quando il corpo non sorreggerà più le mie idee e i miei sforzi, trasformerò la mia energia in coreografia. Sono un’amica di vecchia data dei gestori di questo locale (Las Palmas n.d.r.) e tutte le volte che ne ho la possibilità, salgo volentieri sui loro palcoscenici».
La carrellata di esibizioni che si sono succedute nella serata è stata aperta da lei; non era difficile immaginare che fosse la madrina dell’evento: un po’ per il sunto scenico che è riuscita a fondere nel giro di pochi minuti, ma soprattutto per quella dote invisibile che si acquista solo e soltanto dopo aver studiato e lavorato tanto: il carisma.
«Amo il mio lavoro – aggiunge Gaia Scuderi – e credo profondamente in quel che faccio. Tra le ragazze che si sono esibite stasera, alcune sono delle mie allieve, altre delle amiche e colleghe, che hanno avuto il loro spazio in qualità di ospiti. Ognuna di noi ha portato qualcosa del proprio bagaglio, cercando di offrire, complessivamente, un ventaglio dimostrativo il più esauriente possibile».
Fabiana Cristina
Tra tutte quelle che si sono esibite dopo la professoressa, senza aver la minima consapevolezza del loro singolo spessore artistico, sono rimasto particolarmente colpito dalla fisicità di una di loro. Si è presentata sul palco strusciando morbosamente a terra e appena in piedi ha chiesto (ed ottenuto) con gesti inequivocabili, che al mix alzassero i decibel, che pompassero il volume. Uno strass tra il labro e il mento ad illuminarle il tratto di strada che la divide dall’oggi all’eternità e un passato, seppur lieve, troppo lontano per poterci interagire.
Si chiama Fabiana, Fabiana Cristina. Ha solo 22 anni, anche se da come balla e dalla sicurezza con la quale mi guarda negli occhi quando parliamo pare ne abbia cento. È venezuelana e per ballare ha deciso che nel suo Paese non ci fossero né spazi, né condizioni. Ma anche no. Non conosco la sua storia, ma come Márquez, adoro immaginarla. È venuta a Firenze, da sola, questo è manifesto, lasciandosi dietro, senza dimenticarle, le lezioni e le raccomandazioni che le avranno impartite quando ha deciso di spiccare il volo. Anche la sua danza, nonostante non sia un’allieva di Gaia, è un mix: flamenco e rap, jazz e breakdance. Ma è il rumore sordo del suo diaframma, le ripercussioni ginniche dei suoi muscoli, il calore imbarazzante della sua rimìa a decontestualizzarla e a porla altrove, dove la musica non si sente più e la gente è ormai andata via, spazzate, entrambe, dallo tsunami della sua danza, un portento di grazia ed energia, tracotanza e paura, illusione e gentilezza. E morte.

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[Venerdì 13 settembre 2013 | 09:19 - © Quarrata/news]

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