PISTOIA. Un libro che fa male, anche scomodo se si vuole. La
malattia forse è anche peggiore della stessa morte. Enrico esce dal coma,
causato da un ictus cerebrale, e non comprenderne il motivo per il quale si debba
sentire così immobile, così impossibilitato a parlare. Si rende conto che ha un
corpo ma che non si muove più. Lui, che non aveva tempo mai perché sempre di
corsa. Lui, super impegnato da non poter neppure godere di attimi di vita
preziosa familiare adesso costretto ad averlo questo tempo.
Si trova improvvisamente catapultato e
imprigionato in una dimensione nuova ed in mano a perfetti sconosciuti e non
comprende. Non gli rimane che affidarsi anima e corpo a loro e a questa
situazione sconosciuta e straniera. Inizia, così a scrivere, come per
esorcizzare il tempo, troppo, che adesso ha. Gli serve anche come strumento di
elaborazione e di comunicazione con il mondo.
Ciò che questo libro racconta e
denuncia, nel senso etimologico della parola, è la enorme distanza tra lui e
gli operatori, tra lui, la sua condizione e la classe medica. “Durante la fase
primaria della malattia si rende di necessaria importanza il contatto, non
dimenticate mai che dentro quel corpo c’è una persona, c’è un’anima”, dice Federico
Pagliai, scrittore ed infermiere, “che ascolta, che vive e che soffre
tremendamente la sua condizione”.
Scorrendo il racconto di Enrico si
avverte l’enorme sofferenza interiore che lui sfoga solo con un pianto
irrefrenabile. L’unica cosa che riesce a fare. Specie quando ascolta frasi del
tipo “non c’è molto da fare” oppure “cosa vuoi che diventi questo qui?” Piange.
Sì, Enrico ascolta e piange disperato. Si chiede anche il perché di queste
frasi buttate lì senza un minimo pudore e rispetto nei suoi confronti. Essere
immobili e non poter parlare non significa non udire, ma forse questo alcuni
non lo sanno.
La comunicazione che Enrico intende
trasmettere con questo libro è il pensiero positivo, verso la speranza e verso
la vita nonostante tutto.
L’affetto è alla base della cura, dice
la psicoterapeuta Sabrina Ulivi, la base della vita di tutti noi ma specie
della persona malata. Con la capacità di amare è scientificamente provato che
il nostro cervello e il nostro sistema neurologico fa passi da gigante e riesce,
anche, a guarire, perché non farlo quindi?
Il paziente sente “la presenza
dell’accanto” a sé, sente tutto l’affetto che lo circonda e lo aiuta nella
forza di volontà senza la quale non si esce da nessuna malattia.
“La medicina fondamentale, quella più
importante è stata per me la vicinanza della mia famiglia e dei miei amici,
senza di loro adesso sarei sempre immobile su quel letto senza capirne il
motivo”.
Così racconta Enrico, ed è un grande
insegnamento quello che ci offre. Ascoltiamolo e impariamo. Anche, magari.
Antonella Gramigna
Il libro è stato presentato alla Turati
il 27 luglio scorso.
Cliccare sull’immagine per ingrandirla.
[Martedì 30 luglio 2013 | 19:35 - © Quarrata/news]
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