di LUIGI SCARDIGLI
Chiude oggi la 26esima edizione del Festival – Ieri notte tutti in piedi ad applaudire David Hudson
PORRETTA. Il Reno, poderoso ed importante, Porretta si permette
appena di lambirla, accompagnandola lungo la statale 64. Solo la stazione
ferroviaria, sempre meno usata, è divisa dal resto del comune bolognese dal
fiume sopracitato. È il Rio, invece, corso che somiglia ad un fiumiciattolo,
seppur a terrazze, a permettersi il lusso di solcare, nel mezzo, la ridente
cittadina termale.
E ieri sera, sabato, un sabato del
villaggio come il soul comanda, a Porretta, la festa, era doppia: al Parco
Rufus Thomas, già intorno alle 19, posti a sedere non ce n’erano più. E alla
stessa ora, nelle due piazze del paese, la gente, tantissima, era in festa: si
suonava, soul, naturalmente, al di qua e al di là del Rio e per magìa, come se
quel piccolo torrente lo sapesse, i toni poderosi di un gruppo non
intralciavano minimamente la melodia dei colleghi di là dal ponte.
Poco prima delle 20, al di qua dal
ponte che abbraccia le due rive del Rio, ho incontrato una delle coriste
ascoltate e ammirate la sera precedente: le ho sorriso, facendole intendere che
gradivo complimentarmi personalmente con lei, anche se lo avevo già fatto la
notte precedente, scrivendolo sul Blog. Temevo fosse statunitense (non so l’inglese)
e per questo ho avuto un attimo di titubanza. Ma appena mi ha salutato, sorriso
e slang mi hanno rassicurato.
Sei Sonia Capua, vero, le ho detto
stringendole la mano cercando di trasmetterle il senso di ammirazione per le
sue doti vocali? No, sono Sabrina Kabua, ma se ti son piaciuta, fa lo stesso.
Fa lo stesso, è vero, ma solo per lei; il nome l’ho storpiato fidandomi
ciecamente di quanto suggeritomi da un addetto ai lavori del Porretta Soul
Festival. Beh, scusa per l’inesattezza, proverò a farmi perdonare.
«Sono nata a Stoccarda – ha iniziato a raccontarmi Sabrina
Kabua, preoccupata per un’improvvisa raucedine che potrebbe comprometterle l’esibizione
prevista per domenica sera –, ma prestissimo, la
famiglia si è trasferita in Italia; a Casale Monferrato, prima, in Piemonte,
poi a Bologna, dove vivo tuttora».
Appena iniziamo a parlare, al tavolino
del bar dove stiamo conversando arrivano dei suoi amici; di calibro, visto il
calore reciproco che si scambiano abbracciandosi. Però, l’intervista, deve
interessare a Sabrina quanto a me, perché nonostante la forza e la tenerezza
delle distrazioni, mi riguarda fisso negli occhi e riprende il discorso
interrotto poco prima.
«Nella musica ho sempre creduto molto – dice ancora Sabrina –
perché è uno di quei posti dove adoro appoggiarmi, incantarmi, lasciarmi
dondolare. La musica è tutto quello che non riesco a spiegare, controllare; la
musica è tutto ciò che non si capisce ma nonostante tutto ha un grande senso,
che sono le nostre percezioni, o meglio, le mie, percezioni. Il senso della
musica, provo a riassumere, è tutta quelle serie di informazioni che trafiggono
il cuore, la mente, i sensi e l’erotismo, senza distinzione alcuna: quando
canto avverto tutta una serie di sensazioni che quando non canto non riesco
nemmeno ad immaginare, seppur le desideri».
I suoi riferimenti vocali sono quelli
che raccolgono e finiscono per far somigliare chiunque possa vantare
aspirazioni, velleità e sogni: Aretha Franklin, naturalmente, Janis Joplin, e
ci mancherebbe altro, ma senza fermarsi al passato remoto e snocciolando, in
disordinata sequenza, le più giovani Erika Badu, Macy Gray e l’incommensurabile
Rachelle Ferrell.
«Sono professoresse indispensabili a qualsiasi discente che
senta il bisogno di crescere – aggiunge Sabrina Kabua –, ma poi occorre personalizzare le nostre modulazioni,
altrimenti si rischia di scimmiottare e basta e siccome eguagliare la voce di
una di quelle citate è improponibile, più che difficile, è bene che ognuno
prenda la propria strada: per viaggiare in sicurezza e soprattutto se si vuole
andar lontano occorre premunirsi di tutto l’occorrente: loro non possono
mancare, loro non mancano».
Entriamo nel Parco Rufus Thomas. Sul
palco c’è un band di istrionici giapponesi (Osaka Monaurail), strumentalmente
più che affidabili, con un bandleader strepitoso, Ryo Nakata, simpatico,
inarrestabile, guascone addirittura, imitando, nelle movenze, l’inimitabile, al
piano, Ray Charles. Sabrina si dimentica dell’intervista e si confonde con le
vocaliste del giorno prima, iniziando a ballare e a ritmare, con il battito
delle mani, il soul che si emana dal palco.
Credo che possa bastare, forse. Faccio
memoria degli appunti e soprattutto cerco di conservare, nel frigo del
cervello, le emozioni ottiche ed epidermiche ricevute poco prima al bar, quando
mi raccontava delle sue aspirazioni: rabbia e modestia, voglia e prudenza. La
voce c’è, in abbondanza e modulata con il giusto piglio, il sorriso trasuda
simpatia e sicurezza; la parrucchiera di fiducia – che non può mancare – fa il
resto. Buona fortuna, Sabrina!
Vado a mangiare un boccone nello stesso
ristorante-pizzeria dove si servono tutti quelli che in un modo o in un altro
hanno a che fare con il Festival; c’è qualche musicista che ho sentito prima in
piazza, di qua e di là dal Rio, parecchi indigeni per nulla infastiditi dall’anomala
calca umana e qualche turista straniero, divertito dall’atmosfera soul che si
respira in città.
Ripenso alla conversazione e a quello
che dovrò non dimenticare fino a quando non sarò di nuovo a casa, davanti al
mio piccolo net da dove vi racconto i miei viaggi. Mi sbrigo, a mangiare: al
Parco è già arrivato David Hudson, così importante che Graziano Uliani, l’art
director della manifestazione, l’ha piazzato su tutti i manifesti pubblicitari
del Festival. Ha fatto bene, perché oltre ad avere una voce e un groove
micidiali, David Hudson è davvero elegante. È in completo bianco, anche le
scarpe. Sotto la giacca, che si toglie dopo aver eseguito i primi tre brani ed
aver baciato sulla bocca, tra la folla, un’avvenente signora di colore – la
moglie, forse, la seconda di sicuro, perché con la prima ha avuto qualche
problemino –, ha un gilet arancio, bellissimo. La voce è calda,
caldissima, bollente: si possono chiudere e gli occhi e pensare a tutto quello
che non c’è più (io lo faccio e penso ai miei genitori), per poi riaprirli e
guardare quello che c’è (e io lo faccio di nuovo e vedo mia figlia).
La sua
modulazione soul è semplicemente impressionante; anche quelli che stanno dietro
il palco, sotto la tenda che è l’ultima roccaforte che separa il backstage dall’esibizione,
non riescono a non lasciarsi ammaliare; anche Rick Hutton, il presentatore di
sempre, l’anchormansoul – presentò anche qualche Festival Blues – smette di
inviare un messaggino con il telefonino e si gusta la sigaretta come si deve,
lasciandosi aspirare la nicotina dal fascino di quella voce che ha del tutto
rapito la platea.
Ecco chi è Sabrina Kabua, ora me lo
ricordo: l’ho intervistata, chissà quanti anni fa, ad un Festival Blues, a
Pistoia. Già allora adorava la black music, ma già allora, ricordo bene, mi
diceva che non bastava avere la pelle scura, per avere una marcia in più.
Quella te la devi costruire, mi bofonchiò forse dieci anni e passa tra i banchi
del mercatino del Blues, dopo essersi esibita in piazza del Duomo sotto il sole
cocente, l’ora che si riservava alle promesse (mantenute, vista la strada).
Era mora, però, se non ricordo male. Ma
anche allora mi piaceva. E non solo come cantava.
Cliccare sull’immagine per ingrandirla.
Foto di Luigi Scardigli.
[Domenica 21 luglio 2013 | 09:12 - © Quarrata/news]
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