domenica 21 luglio 2013

SOUL, ONE MORE NIGHT IN PORRETTA


di LUIGI SCARDIGLI

Chiude oggi la 26esima edizione del Festival Ieri notte tutti in piedi ad applaudire David Hudson

PORRETTA. Il Reno, poderoso ed importante, Porretta si permette appena di lambirla, accompagnandola lungo la statale 64. Solo la stazione ferroviaria, sempre meno usata, è divisa dal resto del comune bolognese dal fiume sopracitato. È il Rio, invece, corso che somiglia ad un fiumiciattolo, seppur a terrazze, a permettersi il lusso di solcare, nel mezzo, la ridente cittadina termale.
E ieri sera, sabato, un sabato del villaggio come il soul comanda, a Porretta, la festa, era doppia: al Parco Rufus Thomas, già intorno alle 19, posti a sedere non ce n’erano più. E alla stessa ora, nelle due piazze del paese, la gente, tantissima, era in festa: si suonava, soul, naturalmente, al di qua e al di là del Rio e per magìa, come se quel piccolo torrente lo sapesse, i toni poderosi di un gruppo non intralciavano minimamente la melodia dei colleghi di là dal ponte.

Poco prima delle 20, al di qua dal ponte che abbraccia le due rive del Rio, ho incontrato una delle coriste ascoltate e ammirate la sera precedente: le ho sorriso, facendole intendere che gradivo complimentarmi personalmente con lei, anche se lo avevo già fatto la notte precedente, scrivendolo sul Blog. Temevo fosse statunitense (non so l’inglese) e per questo ho avuto un attimo di titubanza. Ma appena mi ha salutato, sorriso e slang mi hanno rassicurato.
Sei Sonia Capua, vero, le ho detto stringendole la mano cercando di trasmetterle il senso di ammirazione per le sue doti vocali? No, sono Sabrina Kabua, ma se ti son piaciuta, fa lo stesso. Fa lo stesso, è vero, ma solo per lei; il nome l’ho storpiato fidandomi ciecamente di quanto suggeritomi da un addetto ai lavori del Porretta Soul Festival. Beh, scusa per l’inesattezza, proverò a farmi perdonare.
«Sono nata a Stoccarda – ha iniziato a raccontarmi Sabrina Kabua, preoccupata per un’improvvisa raucedine che potrebbe comprometterle l’esibizione prevista per domenica sera –, ma prestissimo, la famiglia si è trasferita in Italia; a Casale Monferrato, prima, in Piemonte, poi a Bologna, dove vivo tuttora».
Appena iniziamo a parlare, al tavolino del bar dove stiamo conversando arrivano dei suoi amici; di calibro, visto il calore reciproco che si scambiano abbracciandosi. Però, l’intervista, deve interessare a Sabrina quanto a me, perché nonostante la forza e la tenerezza delle distrazioni, mi riguarda fisso negli occhi e riprende il discorso interrotto poco prima.
«Nella musica ho sempre creduto molto – dice ancora Sabrina – perché è uno di quei posti dove adoro appoggiarmi, incantarmi, lasciarmi dondolare. La musica è tutto quello che non riesco a spiegare, controllare; la musica è tutto ciò che non si capisce ma nonostante tutto ha un grande senso, che sono le nostre percezioni, o meglio, le mie, percezioni. Il senso della musica, provo a riassumere, è tutta quelle serie di informazioni che trafiggono il cuore, la mente, i sensi e l’erotismo, senza distinzione alcuna: quando canto avverto tutta una serie di sensazioni che quando non canto non riesco nemmeno ad immaginare, seppur le desideri».
I suoi riferimenti vocali sono quelli che raccolgono e finiscono per far somigliare chiunque possa vantare aspirazioni, velleità e sogni: Aretha Franklin, naturalmente, Janis Joplin, e ci mancherebbe altro, ma senza fermarsi al passato remoto e snocciolando, in disordinata sequenza, le più giovani Erika Badu, Macy Gray e l’incommensurabile Rachelle Ferrell.
«Sono professoresse indispensabili a qualsiasi discente che senta il bisogno di crescere – aggiunge Sabrina Kabua –, ma poi occorre personalizzare le nostre modulazioni, altrimenti si rischia di scimmiottare e basta e siccome eguagliare la voce di una di quelle citate è improponibile, più che difficile, è bene che ognuno prenda la propria strada: per viaggiare in sicurezza e soprattutto se si vuole andar lontano occorre premunirsi di tutto l’occorrente: loro non possono mancare, loro non mancano».
Entriamo nel Parco Rufus Thomas. Sul palco c’è un band di istrionici giapponesi (Osaka Monaurail), strumentalmente più che affidabili, con un bandleader strepitoso, Ryo Nakata, simpatico, inarrestabile, guascone addirittura, imitando, nelle movenze, l’inimitabile, al piano, Ray Charles. Sabrina si dimentica dell’intervista e si confonde con le vocaliste del giorno prima, iniziando a ballare e a ritmare, con il battito delle mani, il soul che si emana dal palco.
Credo che possa bastare, forse. Faccio memoria degli appunti e soprattutto cerco di conservare, nel frigo del cervello, le emozioni ottiche ed epidermiche ricevute poco prima al bar, quando mi raccontava delle sue aspirazioni: rabbia e modestia, voglia e prudenza. La voce c’è, in abbondanza e modulata con il giusto piglio, il sorriso trasuda simpatia e sicurezza; la parrucchiera di fiducia – che non può mancare – fa il resto. Buona fortuna, Sabrina!
Vado a mangiare un boccone nello stesso ristorante-pizzeria dove si servono tutti quelli che in un modo o in un altro hanno a che fare con il Festival; c’è qualche musicista che ho sentito prima in piazza, di qua e di là dal Rio, parecchi indigeni per nulla infastiditi dall’anomala calca umana e qualche turista straniero, divertito dall’atmosfera soul che si respira in città.
Ripenso alla conversazione e a quello che dovrò non dimenticare fino a quando non sarò di nuovo a casa, davanti al mio piccolo net da dove vi racconto i miei viaggi. Mi sbrigo, a mangiare: al Parco è già arrivato David Hudson, così importante che Graziano Uliani, l’art director della manifestazione, l’ha piazzato su tutti i manifesti pubblicitari del Festival. Ha fatto bene, perché oltre ad avere una voce e un groove micidiali, David Hudson è davvero elegante. È in completo bianco, anche le scarpe. Sotto la giacca, che si toglie dopo aver eseguito i primi tre brani ed aver baciato sulla bocca, tra la folla, un’avvenente signora di colore – la moglie, forse, la seconda di sicuro, perché con la prima ha avuto qualche problemino –, ha un gilet arancio, bellissimo. La voce è calda, caldissima, bollente: si possono chiudere e gli occhi e pensare a tutto quello che non c’è più (io lo faccio e penso ai miei genitori), per poi riaprirli e guardare quello che c’è (e io lo faccio di nuovo e vedo mia figlia).
La sua modulazione soul è semplicemente impressionante; anche quelli che stanno dietro il palco, sotto la tenda che è l’ultima roccaforte che separa il backstage dall’esibizione, non riescono a non lasciarsi ammaliare; anche Rick Hutton, il presentatore di sempre, l’anchormansoul – presentò anche qualche Festival Blues – smette di inviare un messaggino con il telefonino e si gusta la sigaretta come si deve, lasciandosi aspirare la nicotina dal fascino di quella voce che ha del tutto rapito la platea.
Ecco chi è Sabrina Kabua, ora me lo ricordo: l’ho intervistata, chissà quanti anni fa, ad un Festival Blues, a Pistoia. Già allora adorava la black music, ma già allora, ricordo bene, mi diceva che non bastava avere la pelle scura, per avere una marcia in più. Quella te la devi costruire, mi bofonchiò forse dieci anni e passa tra i banchi del mercatino del Blues, dopo essersi esibita in piazza del Duomo sotto il sole cocente, l’ora che si riservava alle promesse (mantenute, vista la strada).
Era mora, però, se non ricordo male. Ma anche allora mi piaceva. E non solo come cantava.

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Foto di Luigi Scardigli.
[Domenica 21 luglio 2013 | 09:12 - © Quarrata/news]

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