di LUIGI SCARDIGLI
Per San Silvestro al Teatro Verdi di
Pisa – Dilaniata dalla solitudine dipinta con i colori della stravaganza, il ‘mostro
sacro’ riesce a uccidere il tempo e a popolare i suoi spazi terribilmente vuoti
con i ricordi e le futilità
PISA. Speriamo
che un dolce sonno, una di queste volte che sale sul palcoscenico di qualche
teatro del Mondo, non la abbracci, all’istante, casomai mentre sta intonando le
note di Tristezza. Chi? Ornella
Vanoni. Quando? Quando non avrà più voglia di cantare e vista l’età, questa
fatale congiura, potrebbe materializzarsi da un momento all’altro..
Ma fino a quando, la 79enne milanese, avrà nell’ugola, nel
diaframma, nell’anima, nel cuore, nelle vene delle viscere e nei muscoli quella
poesia, speriamo davvero che la sorte faccia un’eccezione, alla femmina della Mala milanese e che il Diavolo
le consenta ancora linfa.
Sentirla vibrare, questa nonna
che non ha ancora perso la voglia di farsi correre dietro dagli uomini, è
ancora un lusso meraviglioso, che il pubblico del Teatro Verdi di Pisa, ieri
sera, nella notte falsa, come false sono tutte le feste comandate, di San
Silvestro, ha fatto bene a non perdersi, ascoltando i suoi si-bemolle per circa
due ore.
Una divinità, una bestia feroce e solitaria della fauna
musicale, una cantante semplicemente inimitabile, che non accontentandosi di
sfidare il tempo, si è addirittura presa la briga di utilizzare metà del
proprio anziano diaframma, esibendosi, per lo più, seduta su uno sgabello,
circondata da tre sessionisti di nobilissima fattura: Edu Hebling al basso e
contrabbasso (è lui, il direttore dell’orchestra-Vanoni), Paolo Vianello al
piano e alle tastiere e Nicola Oliva alle chitarre. Nel mezzo, questa pantera inarrestabile, animata da uno
spiccato senso dell’humor che con il tempo, oltre che ingentilirsi, si è andato
ulteriormente raffinando, cancellando, del tutto, quel poco prendersi sul serio
che le era rimasto.
Di serio, in Ornella Vanoni, cantante, attrice, onegirlshow,
c’è soprattutto la voce, una spada insanguinata, una preghiera di dolore e di
perdono, uno straziante canto della fine. Dilaniata dalla solitudine dipinta
con i colori pastello della stravaganza, Ornella Vanoni riesce ad uccidere il
tempo e a popolare i suoi spazi terribilmente vuoti con i ricordi e le
futilità, quelle che sono fortunatamente svanite e dissolte nel corso degli
anni, ma che la hanno traghettata fino a questo miserabile 2013. Non crede più
nella possibilità che qualcosa possa cambiare, la compagna, segreta e pubblica,
di Gino Paoli; e dipenderà forse da questo se, da qualche anno, anche lei,
sadica e cinica, ha deciso di avvicinarsi a Gesù, che vorrebbe non somigliasse
a quello nel quale invece, molti dei suoi coetanei, hanno sempre creduto.
Ma, con quelle corde vocali e con quella voglia di amare,
amore e sesso che ancora le scuote il cuore, a Ornella Vanoni sono disposto a
perdonare praticamente tutto, perché è un animale da proteggere, venerare e
proiettare nello schermo del futuro per tutti quelli che credono di poter
cantare.
Ho pianto tanto, ieri sera, mentre lei, prima in equilibrio
sul un tacco 8 centimetri e poi, finalmente scalza, dopo il brindisi di
mezzanotte, accennava ad una piccola parte del suo immenso repertorio canoro,
privilegiando le canzoni che l’hanno scaraventata, dal 1960 in poi, anno di Senza fine, nell’Olimpo delle immortali,
con le quali, da tempo, divide e condivide solo le numerosissime primavere, ma
non certo la conduzione esistenziale, che continua a vederla in prima fila a tu
per tu con il pubblico. Prima di quell’anno, incantata e sedotta da Strehler,
Ornella Vanoni si era felicemente cimentata nel teatro pirandelliano, per poi
dedicarsi, anima e corpo, alla musica; quella popolare e sofisticatamente
melodica italiana e quella colta, straziante e raffinatissima, brasiliana,
passando in rassegna tutta la crema della melodia carioca.
Ogni tanto rilegge e reinterpreta le sue melodie; altre volte
si tuffa nelle canzoni di Modugno e Venditti, altre ancora omaggia l’amico e
maestro Dalla, per poi arrivare ad eseguire, con la solita inimitabile
raffinatezza, alcune incisioni, indelebili, di Jobim, Toquinho, Vinicius de
Moraes e tutta la corrente intellettuale dei bossanovisti verde oro con la
quale, in più di un’occasione, Ornella Vanoni ha collaborato, con quella perla
targata 1997, Argilla, registrazione
in studio che si impreziosisce della traduzione e rilettura di alcuni brani di
Carlinhos Brown, il marito di un’altra stella del firmamento brasiliano, Marisa
Monte, raccolti ed incisi in Alfagamabetizado.
Ho pianto tanto, ieri sera, perché non avrei potuto fare
diversamente, con il tempo che scorre tra le mani, la malinconia che si
materializza e prende la forma dell’impossibilità di poter cambiare il corso
della vita del mondo, ma anche solo e semplicemente la nostra, una saudade amplificata e resa
insopportabile dal dolore, maestoso, della sua voce, amorevolmente dedita,
ancora, all’infuso alcolico del rosso di botte invecchiata, che la stordisce un
po’, ma che non la fa cadere.
Cliccare sull’immagine per ingrandirla.
Foto di Luigi Scardigli.
[Martedì 1° gennaio 2013 - © Quarrata/news 2013]
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