di Niccolò Lucarelli
FIRENZE. Gli Anni Trenta furono un decennio di
grande vitalità in campo economico, tecnologico, sociale, e culturale, campo
quest’ultimo, che vide protagonisti filosofi, musicisti, scultori, architetti,
e pittori.
Smentendo quello
che è il primo e superficiale giudizio, e cioè di anni esclusivamente dominati
dalla barbarie totalitarista, la mostra Anni
’30. Arti In Italia
oltre il Fascismo, che inaugura la stagione culturale di Palazzo
Strozzi, vuole sollevare il velo sull’estrema eterogeneità stilistica dei tanti
artisti che vissero quel periodo, inseriti in quello che fu un vero e proprio
vortice di sviluppo in quasi tutti i campi, in Italia e all’estero; basti
ricordare il gruppo dei ragazzi Via Panisperna, che aprì la strada alla fisica
nucleare, i percorsi musicali di Stockhausen, la nascita dell’Iri, le leggi di
uniformità bancaria, i voli transoceanici, il cinema sonoro, Husserl e
Heidegger, Jung e Freud.
La pittura
appunto, non mancò di far sentire la sua voce attraverso una capillare ricerca
di nuovi stili, ma anche rifacendosi alla tradizione tardo-ottocentesca di
Macchiaioli e Impressionisti; proprio questa eterogeneità smentisce l’onnipresenza
dell’arte di regime, ed ecco spiegato quell’oltre del titolo, che fa
(ri)pensare gli Anni Trenta come un grande laboratorio aperto ai nuovi sviluppi
tecnico-scientifici.
Netta, in arte,
la contrapposizione fra tardo-ottocentismo e avanguardia, che si può qui
riassumere attraverso alcuni quadri della mostra. Il primo, Antiche mura, del romagnolo
(ma fiorentino d’adozione) Achille Lega, è un classico paesaggio toscano che
risente considerevolmente dell’esperienza macchiaiola e della scuola di
Piagentina, rivisitate attraverso l’esempio di Soffici e Carrà; ancora sulla
china della tradizione, Georgica
di Lorenzo Viani ritrae la popolare Darsena viareggina con forti rimandi alla
pittura di Giovanni Fattori, e l’ampiezza dell’orizzonte può facilmente essere
accostata al paesaggio maremmano.
Dal lato delle
avanguardie, spiccano nella sezione una Natura
morta di Morandi, e Donna
al caffè di Antonio Donghi. Morandi approfondisce lo studio di
genere raggiungendo una corporea metamorfosi di ombre, con la forma dell’oggetto
che cede alla densità del colore. Donghi, da parte sua, si inserisce nella corrente
metafisica con un ritratto femminile che ben esemplifica gli anni Trenta, ed è
stata scelta come immagine simbolo di questa mostra. Una scena da café society, mondana ma
leggermente venata d’inquietudine come suggerisce la surreale immobilità della
figura femminile, colta in una posa di annoiato fastidio. L’abito, di un cupo
verde inglese, cui fa corona un basco nero à
la Marlene Dietrich, contrasta con il pallore della pelle, mentre
lo sguardo leggermente in tralice evita d’incontrare lo spettatore. Un piano
americano che rimanda al cinema espressionista tedesco, di cui avremo occasione
di riparlare.
Fra le altre
opere esposte, citiamo Amici
nello studio, di Renato Guttuso, i cui malinconici interni bohémien
richiamano certe atmosfere di Cesare Pavese; le tre figure evitano ognuna lo
sguardo nell’altra, ognuna persa nella sua fantastica solitudine. Un’atmosfera
sognante, distaccata, non dissimile da La
bella estate. Aeropittura,
di Osvaldo Peruzzi, si inserisce invece nella corrente futurista, e dove il
brivido del volo e della velocità è sintetizzato in un chiaroscuro dai contorni
netti.
In un clima di
intensi scambi culturali, tanti artisti italiani hanno lavorato all’estero,
stabilendosi soprattutto a Parigi, ma non solo. A loro, e agli stranieri in
Italia, è dedicata la sezione Artisti
in viaggio, che rievoca soggiorni scapigliati fra le luci del
Carrefour Vavin, della Potsdamerplatz o della Quinta Strada. Fortunato Depero
ritrasse proprio l’ambiente newyorkese, in Grattacieli
e tunnel, opera celebrativa in chiave futurista dell’architettura
del cemento e dell’acciaio, che non sarebbe dispiaciuta a Sant’Elia. Vinicio
Paladini, nel suo Complesso
onirico nr1, rigonfio di suggestioni tedesche, riproduce quell’angoscia
da Blaue Engel fondendo
espressionismo e dadaismo; un magnifico nudo femminile, di possanza statuaria,
una valchiria verrebbe da dire, indossa soltanto un paio di autoreggenti nere e
sembra condurre una seduta di psicanalisi con un busto romano. Un dialogo con
la Storia, una riflessione sulla china tragica che il mondo sembrava imboccare
negli anni Trenta.
Nonostante l’eterogeneità
fin qui osservata, si ebbero anche episodi di vicinanza fra arte e regime, come
appare nella quarta sezione, intitolata Arte
pubblica, e dedicata alle opere d’arte destinate alla promozione
ideologica, sottoforma di murales e sculture. Sono qui in mostra molti bozzetti
e disegni preparatori. Se il fascismo non riuscì comunque a far nascere uno
stile “di regime”, bisogna però osservare che almeno i canali promozionali
erano in sua mano: il complesso circuito delle mostre, biennali, triennali o
quadriennali che fossero, erano organizzate dal sindacato degli artisti, che
aveva il potere di promuovere o respingere i dissidenti o comunque i meno
ortodossi.
Quell’armonia
artistica tanto sospirata sembrò essere raggiunta sul finire del decennio,
quando la mano dura totalitaria, ricalcando le orme del nazionalsocialismo, si
fa sentire con le leggi razziali e l’epurazione degli artisti “degenerati”,
oppure derisi in apposite mostre, come accade nel 1937 per Grosz, Kokoschka,
Dix, Mondrian, e altri. Il regime preferiva di gran lunga temi patriottici come
Il grano, di
Gaudenzi, oppure Madre e figlio,
di Ricchetti, appunto temi legati alla retorica fascista. Ma il lato oscuro
degli anni Trenta emerge nelle opere di Dix e Grosz, ad esempio, che ritraggono
figure umane quasi demoniache, intrise di sadismo e violenza.
La sezione
finale è dedicata alla città di Firenze, e fra le opere esposte spicca Gli amici nell’atelier, di
Guido Peyron, un’opera che richiama direttamente le atmosfere conviviali del
Caffè Michelangiolo. E ancora Ottone Rosai, con scorci pratoliniani della
vecchia Firenze, Soffici e Viani, con atmosfere dal sapore agreste.
Alle sezioni
dedicate ai quadri, se ne affiancano di più specifiche, una legata al design,
con un’esposizione di terrecotte e ceramiche, e una scelta di fotografie degli
ambienti delle triennali, e una dedicata alla radio, mezzo di comunicazione che
in quegli anni ebbe grande diffusione, e che vede qui riprodotta un’apparecchiatura
del periodo.
Una mostra,
questa, che permette di cogliere i vari aspetti della pittura degli anni
Trenta, non solo tecnici ma anche psicologici e sociali, attraverso un
intelligente accostamento di opere di correnti diverse. L’allestimento
razionale (un omaggio al periodo?), e l’ottima illuminazione della sale
permette di ammirare i quadri in tutta la loro bellezza. Si può cogliere la
grandezza di questa feconda stagione culturale soltanto liberandoci dal
pregiudizio per il quale la cultura artistica è necessariamente lo specchio del
momento politico. E una mostra, se vuole considerarsi un successo, deve saper
educare il visitatore a guardare l’arte con occhi nuovi, più aperti e
consapevoli. E si può dire che una volta lasciata l’ultima sala, gli anni
Trenta non appaiono più come un periodo segnato soltanto dalla barbarie totalitaria.
La mostra è
ospitata nelle sale di Palazzo Strozzi, ed è vistabile tutti i giorni, dalle 9
alle 20, (il giovedì fino alle 23), fino al 27 gennaio. Tutte le informazioni
per biglietti e prenotazioni sul sito www.palazzostrozzi.org.
Cliccare
sull’immagine per ingrandirla.
[Domenica 14
ottobre 2012 - © Quarrata/news 2012]
Nessun commento:
Posta un commento
MODERAZIONE DEI COMMENTI
Per evitare l’inserimento di spam e improprie intromissioni, siamo costretti, da oggi 14 febbraio 2013, a introdurre la moderazione dei commenti.
Siamo dispiaciuti per i nostri lettori, ma tutto ciò che scriveranno sarà pubblicato solo dopo una verifica che escluda qualsiasi implicazione di carattere offensivo e penale nei loro interventi.
Grazie.