di LUIGI SCARDIGLI
Ma la manifestazione, in piedi da oltre trent’anni, ha
bisogno di un restyling e di un
maggior coinvolgimento della città a cominciare dalla Ufip
PISTOIA. Il flop di questa 34esima volta del Festival di Pistoia
(12.000 spettatori, scarsi, spalmati su cinque sere) deve scatenare una
riflessione. Seria. Ad iniziare dal marchio, inscindibile, che accompagna, dall’origine
del 13 luglio 1980, la manifestazione: Blues. Il Blues non è affatto morto, né
se la passa maluccio: ha solo cambiato pelle, si è sviluppato, è cresciuto,
proprio come successe quando Robert Cray – che ha chiuso il sipario domenica
sera nella quinta ed ultima serata - decise di svecchiarlo e di catapultarlo
fin dove ha potuto.
Certo, il momento non è uno di quelli
nei quali ci si possa permettere il lusso di sprecare; ma l’8 giugno, a Rho e sabato scorso, allo stadio Olimpico
di Roma, si sono esibiti, rispettivamente a 70 e 80 euro a biglietto, gli Iron
Maiden e i Muse, con questi risultati: 42.000 spettatori nel catino industriale
milanese e 70.000 nell’arena calcistica.
È un evento ultratrentennale, questo
vecchio e stanco Blues’In: la città deve fare qualcosa di più, oltre che la
fortuna dei ristoratori e quella degli idioti, tenuti, i primi e i secondi,
aperti e liberi di starnazzare fino a notte fonda. Questo Festival è anche e
soprattutto di questa città e di tutti quelli che attorno a questo evento, l’unico,
oltre alle piantagioni, a veicolare Pistoia nel mondo, vivono in sintonia,
quasi simbiotica. Negli altri 360 o 362 giorni dell’anno – dipende dalla
lunghezza del Festival -, a Pistoia, di musica, non se ne fa, non se ne ospita,
non se ne produce.
E guai se Nick Becattini e tutto lo
stuolo di musicisti al seguito prendono l’iniziativa di fare musica dal vivo:
alle ore 23 si staccano gli amplificatori, si toglie la corrente e se qualche
chitarrista indomito decide di continuare, si inviano i nocs a ripristinare il silenzio. Pistoia è da tempo la città dei
vivai e dei ristoranti, due realtà floride tra le quali si insinua il
cartellone del teatro Manzoni, le pose dei
dialoghi sull’uomo e il Festival.
In questa città, dal 1980 ad oggi, non
è ancora nata una scuola di musica e sì che, al di là degli oltre sei lustri
del Festival, Pistoia è anche e soprattutto la città della Ditta Ufip, della
dinastia Tronci, con l’ultimo dei suoi discendenti, Luigi, ancora lì, ad
aspettare che l’Amministrazione gli dia, ad usufrutto, beninteso, le chiavi
della porta del suono.
Poi, le contingenze, faranno il resto e
rivedremo edizioni del Festival più e meno brillanti di altre, ma troppa parte
della città, da questo evento, che ribadisco, ci appartiene, mi appartiene, ne
è esclusa. Non sono solo uno spettatore del Festival, né uno dei suoi più
puntuali cronisti; per scrivere di musica della mia città, ai primi tempi della
mia collaborazione con il quotidiano Il
Tirreno, andavo a cercar di musica altrove per portarla a Pistoia. E
scriverne.
John Mc Laughlin, band leader della
Mahavisnue Orchestra, disse, molti anni fa, che la musica è una forma di spiritualità più alta della religione e
molti anni prima, San Francesco, sostenne che chi canta prega due volte.
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[Martedì 9 luglio 2013 | 07:24 - © Quarrata/news]
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