di LUIGI SCARDIGLI
Un film atroce e delicato
A UNA GIOVANISSIMA mamma irlandese, le suore del convento dove la ragazza è
stata abbandonata, strappano e vendono il piccolo a una facoltosa famiglia
americana.
Il rimorso sofferto per una vita intera
si risolve, tragicamente, solo quando la donna (Judi Dench), ormai vecchia, si
imbatte in un giornalista politico (Steve Coogan) da poco licenziato e che
viene rimesso professionalmente in carreggiata da una rivista che si occupa,
quasi esclusivamente, di storie di vita vissuta e gossip della peggior
tradizione.
È una storia vera, Philomena – in programmazione, in questi giorni, al cinema Roma di
Pistoia e che nell’ultima rassegna cinematografica di Venezia si è portato via il
premio Osella per la miglior sceneggiatura e quattro riconoscimenti collaterali
–, quella di Martin Sixsmith (che è l’autore del libro
omonimo da cui è tratta la pellicola, diretta da Stephen Frears) che incontra,
ad una cerimonia, la figlia di Philomena Lee, che lo invita a indagare su quel
marmocchio di cui sua madre non ha mai saputo nulla.
La trama, zeppa di crudeltà e qualche
buonismo che ne stempera il dolore, è un tragico spaccato delle civili
incompatibilità che la Chiesa cattolica ha sofferto – e non ha ancora smesso di
soffrire – nei confronti del mondo circostante, dal quale si isola con
irritante prosopopea, per poi farci, di soppiatto e lautamente i conti.
Ma sono il muto e ordinato dolore di
una mamma troppo giovane per capire la propria maternità e la sua inappagabile
voglia di sapere chi sia e cosa abbia fatto il proprio figlio sottrattole in
tenerissima età, i binari sui quali scorre la trama, un viaggio dall’Irlanda verso
gli Stati Uniti e ritorno, dove il piccolo è cresciuto e divenuto un’autorità
diplomatica e che ha vissuto, parallelamente, la propria identità omosessuale,
con il tragico epilogo della morte causata dal virus dell’Hiv.
Un film che oscilla, sistematicamente,
tra il politicamente corretto e scorretto, sul filo delle rughe di una
bravissima, teatrale, Judi Dench che riesce ad incarnare la rabbia mortificata
di un sopruso inconsolabile che trova riparo e ultima e definitiva consolazione
nell’abbraccio con l’eternità, con il perdono, generato da una forza
sovrannaturale che sfugge alle umane passioni.
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[Mercoledì 25 dicembre 2013 | 08:46 - © Quarrata/news]
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