di LUIGI SCARDIGLI
Quattro chiacchiere con il cantautore napoletano a Lunatica
da dove è passato il suo tour – «Troppa cacca nell’industria della musica»
CASCINA. Quando aveva diciassette anni, Giuseppe Scotto Di Carlo, da
sempre Pino Scotto, nella sua Monti di Procida, dove è nato, non succedeva
assolutamente nulla. E lui, cresciuto a pane e Gianni Morandi, folgorato da un 45 giri di Elvis
Presley, decise di provarci. Se ne andò a Napoli, iniziando a suonare. Da
autodidatta puro, convinto, vincente. Senza farsi incantare dalle sirene
discografiche, però.
«Ho fatto per trentacinque anni il
magazziniere in una fabbrica milanese, dove ho vissuto – racconta Pino Scotto
poco prima della sua esibizione nella pineta di Cascina, al The Jungle –. La musica è una passione,
non un mestiere. Chi suona per far soldi smette di suonare, perde tutto il
pathos necessario, diventa un impiegato, non è più incazzato come dovrebbe
essere e si propende ai compromessi, quelli che devi sottoscrivere quando devi
piacere. Agli altri. Io, degli altri, non mi preoccupo. Quando sono sul palco,
naturalmente. Nella vita di tutti giorni, molto, invece: ho fatto, con la mia
compagna ed altre persone, più o meno direttamente coinvolte nel mondo della
musica, un sacco di cose utili ed interessanti per quelli che se la passano
peggio di noi. Se hai voglia di informarti, fallo pure: altrimenti, continua a
chiedermi quel che vuoi sapere».
Il prossimo 11 ottobre, Pino Scotto
spegnerà 64 candeline: suo figlio, 41 anni, è un signore qualsiasi, senza il
vizio della musica, ma che va fiero del padre. Il padre è quello che ha inciso
8 album con i Vanadium, band haevy
metal di ispirazione purpliana, prima
formazione che vanta, al microfono, l’ex scugnizzo, per nulla attratto dalle
lusinghe della camorra, ma nemmeno da quelle della musica da hit: Pino Scotto
suona perché ne ha molte da dire, forse anche troppe e allora, dentro con il
rock, quello che ti consente di urlare fino a quando hai fiato in gola, senza
compromessi, senza divise, senza lustrini. Ma con i capelli lunghi.
«Il mondo della musica è pieno di merda
– dice ancora, senza mezzi termini, Pino Scotto, diplomazia che non usa nemmeno
davanti alle telecamere televisive, su Database,
ad esempio, su Rock Tv –. La musica italiana è il più alto concentrato di puttane, e son quasi tutti uomini, a
cantare. Inutile che ti faccia l’elenco di chi si vende sistematicamente, lo
dico sempre, non ne ho più voglia. Ne salvo davvero pochi, soprattutto tra i
più giovani. Mi sono esibito, recentemente, a Verona: prima di noi due band di
ragazzini che facevano molto male:
dovrebbero ascoltarli i nostri discografici quelli che hanno ancora qualcosa da
dire; ma loro pensano al mercato, ai guadagni; la musica, i testi, la rabbia, l’emarginazione,
la voglia di cambiare vengono tutte dopo, se c’è tempo. E spazio».
Tra il 1990 e il 1992, Pino Scotto
tenta anche la carriera solista-italiano, incidendo Il grido disperato di mille bands, con una formazione
particolarmente illustre: Andrea Braido alla chitarra elettrica, Fabio Treves
all’armonica e Luigi Schiavone alla chitarra acustica. Con questi colleghi si
esibisce, tra l’altro, al Monsters of
Rock, dividendo il palco con gli Iron Maiden Black Sabbath e Pantera.
Oltre cento date live all’anno,
migliaia di copie vendute, sontuose collaborazioni con il gotha del rock and
roll, Pino Scotto però preferisce restare ai margini del salone discografico.
Del resto, nella stanza dei bottoni della
musica, c’è entrato 40 anni fa: nessuno ha potuto cacciarlo, perché ha i
numeri per restare, ma non piace proprio a nessuno.
E lo sa perfettamente. Ma se ne fotte!
Cliccare sull’immagine per ingrandirla.
Foto di Luigi Scardigli.
[Domenica 14 luglio 2013 | 16:15 - © Quarrata/news]
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