di Luigi Scardigli
Il Teatro, con la T maiuscola, non
morirà mai, così come dio, con la d minuscola, forse, esiste. È questa l’equazione,
non solo teatrale, probabilmente, attorno alla quale si muove Paolo Rossi e la
sua versione Pop 2.0 de Il mistero buffo, il grammelot inventato, 40
anni fa, dal suo padre putativo (termine rischioso, dopo aver visto lo
spettacolo), Dario Fo, andato in scena, ieri sera, al Nazionale di Quarrata,
per il secondo appuntamento della stagione.
A guidare le blasfeme intuizioni del
folletto meneghino è Carolina De La Calle Casanova, la regista, che nell’occasione
del riadattamento originario, oltre ad un illustre interprete nonché
discendente di Dario Fo, ha voluto anche un’altra meravigliosa reincarnazione
della moglie Franca Rame, affidando le sorti della seconda parte dello
spettacolo ad un’incontenibile Lucia Vasini, meravigliosa leonessa che gioca
con la propria apparente alcolizzata demenza senile prima di sfoderare un
ruggito professionale in si bemolle capace di ammutolire e pietrificare la sala,
che riuscirà a sciogliersi solo dopo averle tributato un interminabile
applauso.
A latere, come indispensabile colonna
sonora, ma anche dettatore di tempi e ritmi satirici, più che comici, c’è la
chitarra del Giuda Escariota (se spagnolo), o Giuda Escargot (se francese)
della scena, il barlettano Emanuele Dell’Aquila, l’anima dei Pink Floyd, o
degli imbarazzanti primi piani di Sergio Leone, che pare iniziare come vittima
sacrificale dell’oceanico protagonista per finire da nobile e autorevole
comprimario del successo.
Nel mezzo, ma anche prima e soprattutto
dopo, c’è lui, Paolo Rossi, il solito immarcescibile poeta, il riadattare di
mille battute, l’imperdibile cantastorie e cantabarzellette, l’incontrollabile
rivoluzionario fallito che sulle ceneri delle proprie disillusioni ha creato
tutta la sua vis, un Noschese ubriaco, un Petrolini allucinato, un Leonard
Cohen padano, un Gigi Protetti miniaturizzato, che si rinnova, come pianta
saprofitica, della perdita delle proprie forze e della labilità della propria
memoria, piccole e divertenti defaillances che non fanno che offrire,
allo spettacolo e agli spettatori, l’unicità delle sue rappresentazioni, un
continuo entrare ed uscire dalla platea con la quale interagisce a copione,
approfittando per riprendere fiato, ripassare velocemente la battuta
successiva, ma anche per arrivare all’epilogo battendo una strada sconosciuta,
non segnata sulle guide Michelin e mai percorsa prima.
È il fascino, rischioso ma
irresistibile, di un’improvvisazione calibrata, che non sposta mai, di una
virgola, l’asse della trama, se non per arricchirla, adornarla e rinnovarla. Paolo
Rossi lo fa sulla falsariga dei vangeli apocrifi, ribattezzati dalla
riproposizione, onirica, di Ho visto un re e chiusi ai piedi di un’altra
crocefissione, tale e quale a quella del dio che ricordo all’inizio,
riabilitati dall’ondivaga scontata attualità politica, decisamente in debito di
ossigeno dopo l’abbattimento della prima repubblica pentapartitica, l’ascesa
berlusconiana e dunque la sua fine e un nuovo che avanza che non si è ancora
spiegato a dovere, per essere satireggiato.
Un omaggio costante, pedissequo,
fedele, grato e sincero cha Paolo Rossi ripartisce, equamente e
orgogliosamente, con i docenti e i discenti conosciuti ed abbracciati durante
queste interminabili e indimenticabili stagioni, da Dario Fo a Enzo Jannacci,
passando per Giorgio Gaber, Fabrizio De André e fino ad arrivare a Giorgio
Strehler, ingentilito dalla materna, semiseria, ma intransigente, nobiltà di
Lucia Vasini sulle onde sonore di Emanuele Dell’Aquila, un fiume nascosto,
questa triade decomposta e rincollata ad ogni piè sospinto, ma inesorabilmente
destinata a sfociare in mare aperto.
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Foto di Andrada Cetatoiu.
[Mercoledì 28 dicembre 2011 – ©
Quarrata/news 2011]
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