mercoledì 28 dicembre 2011

ROSSI E «IL MISTERO BUFFO». TEATRO CON LA «T» MAIUSCOLA


di Luigi Scardigli

Il Teatro, con la T maiuscola, non morirà mai, così come dio, con la d minuscola, forse, esiste. È questa l’equazione, non solo teatrale, probabilmente, attorno alla quale si muove Paolo Rossi e la sua versione Pop 2.0 de Il mistero buffo, il grammelot inventato, 40 anni fa, dal suo padre putativo (termine rischioso, dopo aver visto lo spettacolo), Dario Fo, andato in scena, ieri sera, al Nazionale di Quarrata, per il secondo appuntamento della stagione.
A guidare le blasfeme intuizioni del folletto meneghino è Carolina De La Calle Casanova, la regista, che nell’occasione del riadattamento originario, oltre ad un illustre interprete nonché discendente di Dario Fo, ha voluto anche un’altra meravigliosa reincarnazione della moglie Franca Rame, affidando le sorti della seconda parte dello spettacolo ad un’incontenibile Lucia Vasini, meravigliosa leonessa che gioca con la propria apparente alcolizzata demenza senile prima di sfoderare un ruggito professionale in si bemolle capace di ammutolire e pietrificare la sala, che riuscirà a sciogliersi solo dopo averle tributato un interminabile applauso.
A latere, come indispensabile colonna sonora, ma anche dettatore di tempi e ritmi satirici, più che comici, c’è la chitarra del Giuda Escariota (se spagnolo), o Giuda Escargot (se francese) della scena, il barlettano Emanuele Dell’Aquila, l’anima dei Pink Floyd, o degli imbarazzanti primi piani di Sergio Leone, che pare iniziare come vittima sacrificale dell’oceanico protagonista per finire da nobile e autorevole comprimario del successo.
Nel mezzo, ma anche prima e soprattutto dopo, c’è lui, Paolo Rossi, il solito immarcescibile poeta, il riadattare di mille battute, l’imperdibile cantastorie e cantabarzellette, l’incontrollabile rivoluzionario fallito che sulle ceneri delle proprie disillusioni ha creato tutta la sua vis, un Noschese ubriaco, un Petrolini allucinato, un Leonard Cohen padano, un Gigi Protetti miniaturizzato, che si rinnova, come pianta saprofitica, della perdita delle proprie forze e della labilità della propria memoria, piccole e divertenti defaillances che non fanno che offrire, allo spettacolo e agli spettatori, l’unicità delle sue rappresentazioni, un continuo entrare ed uscire dalla platea con la quale interagisce a copione, approfittando per riprendere fiato, ripassare velocemente la battuta successiva, ma anche per arrivare all’epilogo battendo una strada sconosciuta, non segnata sulle guide Michelin e mai percorsa prima.
È il fascino, rischioso ma irresistibile, di un’improvvisazione calibrata, che non sposta mai, di una virgola, l’asse della trama, se non per arricchirla, adornarla e rinnovarla. Paolo Rossi lo fa sulla falsariga dei vangeli apocrifi, ribattezzati dalla riproposizione, onirica, di Ho visto un re e chiusi ai piedi di un’altra crocefissione, tale e quale a quella del dio che ricordo all’inizio, riabilitati dall’ondivaga scontata attualità politica, decisamente in debito di ossigeno dopo l’abbattimento della prima repubblica pentapartitica, l’ascesa berlusconiana e dunque la sua fine e un nuovo che avanza che non si è ancora spiegato a dovere, per essere satireggiato.
Un omaggio costante, pedissequo, fedele, grato e sincero cha Paolo Rossi ripartisce, equamente e orgogliosamente, con i docenti e i discenti conosciuti ed abbracciati durante queste interminabili e indimenticabili stagioni, da Dario Fo a Enzo Jannacci, passando per Giorgio Gaber, Fabrizio De André e fino ad arrivare a Giorgio Strehler, ingentilito dalla materna, semiseria, ma intransigente, nobiltà di Lucia Vasini sulle onde sonore di Emanuele Dell’Aquila, un fiume nascosto, questa triade decomposta e rincollata ad ogni piè sospinto, ma inesorabilmente destinata a sfociare in mare aperto.

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Foto di Andrada Cetatoiu.
[Mercoledì 28 dicembre 2011 – © Quarrata/news 2011]

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