di LUIGI SCARDIGLI
Sulle note fedelissime dei Pink Floyd un articolato dramma
familiare
LAMPORECCHIO. L’augurio, affatto peregrino, è che Rogers Waters, una
delle divinità generazionali della rock band più teatrale del corso della
musica, questo riadattamento teatrale del suo The Wall, abbia modo di vederlo. Primo per rimanere sbalordito
dalla fedeltà riproduttiva, quasi ossessiva, si può dire maniacale con la
quale, la cover band romana dei Sound Eclipse
(Stefano Cacace alla voce, Marco Zannu alle chitarre, Emanuele Puzzilli
alla batteria, Andrea Agati al basso ed Emiliano Zanni al synt) sia riuscita
nell’intento di fotocopiare il sound
originale dei Pink Floyd e del loro capolavoro del 1969.
Secondo, per applaudire Angelo Longoni,
il regista, bravo a saltellare tra ante e
post, l’amore ai tempi dei primi corteggiamenti a quello del dramma degli
arresti, con sequenze che sorvolano un bell’arco di tempo con naturale lentezza
e a contestualizzare un dramma senza tempo, senza appesantirlo di inutili
orpelli, né decidendo di zavorrarne qualcosa credendo di doverlo
necessariamente snellire, per trasportarlo nel tempo e portarlo fin sul palco
del teatro di Lamporecchio, dove ieri sera si è consumato il secondo
appuntamento stagionale.
Terzo, ma non ultimo, perché Eleonora
Ivone ed Ettore Bassi, che si sono fatti scivolare gli applausi addosso come
fosse cosa che non li riguardasse o come se quel rumore fragoroso che è giunto
dalla platea, continuo, ritmato, di apprezzamento, fosse troppo per loro, sono
veramente bravi. Bravi nel recitare il meno possibile, capaci di slacciarsi
dall’ansia del gradimento e di riadattare, sul palco, quello che, in quelle
sconcertanti situazioni (carcere, arresti domiciliari, giochi sporchi di
potere), si consuma tra le mura domestiche, dove spesso i muri sono troppo
sottili perché le cose non giungano anche fuori e con altrettanta fatalità
troppo spessi affinché da fuori qualcuno senta le grida di dolore e decida di
correre in soccorso.
Queste le impressioni che abbiamo
ricevuto di primo acchito: scendendo
nello specifico ci pare doveroso sottolineare il gusto con il quale la
scenografia si è preoccupata di porre la musica, asso portante della
rappresentazione, alle spalle dei due protagonisti, come se fosse una consolle
nascosta, velata all’impatto da una coltre di fumo sulla quale sono scorse le
immagini dei video dei Pink Floyd. E come i due giovani mattatori si siano
perfettamente incastonati tra le pieghe di un capolavoro leggendario come lo è,
oltre ogni irragionevole obiezione, l’opera massima dei Pink Floyd, gruppo rock
generazionale, un vero e proprio spartiacque sonoro e non ora, a distanza
siderale dalla loro apparizione, ma ai tempi della loro proposizione al
pubblico, diviso, all’epoca, tra la voglia romantica di sognare e la crudezza
del rock meno disposto a compromettersi.
A tutto non si può certo non aggiungere
la gradevolezza estetica dei protagonisti: carucci,
come si dice nella loro Roma, presentabilissimi, piacevoli, quel tanto da
lasciare il segno senza superarlo, quella bellezza che si nota ma che non
stordisce, che produce una scia, ma non irrita, che ben dispone, fusa e confusa
ad un bel lavoro psicofisico e impreziosito dalla esse di pezza di Eleonora Ivone, un vezzo distintivo, un neo che
dona e ulteriormente ingentilisce un gracile giunco capace di sorridere alle
avversità.
Si poteva forse scegliere un altro
epilogo, alla rappresentazione: meno ottimista, più realista, devastante. Il
muro sarebbe rimasto in piedi, fiero e forte, anche al cospetto di una fine
lacerante, dolorosa, schizofrenica, cruenta, meno politicamente corretta. Si
poteva scegliere anche un altro teatro, uno di quelli meno esposti alla gelida
tramontana come lo è quello di Lamporecchio, dove gli abbonati, forse, di muri,
non ne vogliono sapere.
Cliccare sull’immagine per ingrandirla.
Foto di Luigi Scardigli.
[Lunedì 2 dicembre 2013 | 08:46 - © Quarrata/news]
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