di LUIGI SCARDIGLI
L’opera di Philippe Faure diretta da
Dora Donarelli con Elisabetta Iozzelli, Mimma Melani e Ilaria De Jesus
BOTTEGONE. L’idea è buona, politicamente correttissima, inoltre,
quella di trasportare liberamente in scena C’est
beau Alger di Philippe Faure e trasformarlo, grazie alle mani di Dora
Donarelli, in Il nostro silenzio, con
Elisabetta Iozzelli, Mimma Melani e la sinuosa danzatrice Ilaria De Jesus, in
scena, ieri sera, al teatro di Bottegone.
È buona soprattutto perché in un
periodo di dolore e rabbia, sconforto e desiderio di vendetta, il messaggio,
costante, che la maestra algerina (Elisabetta Iozzelli) lancia tanto alla sua
intervistatrice francese (Mimma Melani), che al mondo intero, è quello della
speranza, illuminata, sistematicamente, dal sole algerino e dai suoi muri
bianchi, offesi, sì, dal sangue dei morti e delle donne violentate, ma non
ancora oscurati dalla voglia di farli splendere che, prima o poi, prenderà il
sopravvento: dovrà succedere.
La coreografia luminosa e un po’
spaziale che apre il sipario sul palco alla rovescia, è un ottimo prologo, che
si allontana dal seminato giusto il tempo di consentire alla bella e brava, ma
superflua, Ilaria De Jesus, di farci vedere quanto sia brava con la danza del
ventre. Poi, inizia l’intervista, tra un’algerina impaurita, ma non paurosa,
piccola, minuta, ma muscolosa, anonima e insignificante, ma comunque oggetto di
desiderio e violenza e desiderosa di diventare il prima possibile madre e una
giornalista che tutto sembra, fuorché una giornalista.
Mi compiaccio con Elisabetta Iozzelli,
che ho visto ieri sera per la prima volta all’opera e mi dispiace per Mimma
Melani, che ho già avuto modo di ammirare in altre occasioni; mi congratulo con
Elisabetta Iozzelli, abile, anche se facilitata da una corporatura algerina, a cogliere il senso della
voglia di riscatto pacifista del suo popolo e soprattutto delle sue donne
derise, usate e violentate, ma non abbastanza da poterle far tacere. Anzi, è
proprio l’altra faccia della medaglia della guerra e delle sue nefandezze che
alimenta in Malika il desiderio di
condurre il suo popolo oltre la siepe e di poter avere il coraggio di aprire finalmente
quella porta, quando qualcuno si avvicina a bussare.
Non mi ha convinto affatto Mimma
Melani, invece, attentissima a ricordare ed inanellare i tempi tecnici delle
domande e delle riflessioni, ma senza dare mai l’impressione di poterla
prendere seriamente in considerazione in qualità di reporter: il registratore
che poggia sul tavolino non lo si rivede che alla fine dell’intervista; il
block notes e la penna con la quale immaginavo avrebbe immortalato espressioni
e situazioni, restano inoperosi, ma soprattutto non riesce mai ad essere
giornalisticamente attendibile; questa intervista clandestina, pattuita chissà
attraverso quali escamotages diplomatici, ha sempre il sapore di una
confessione, di un incontro tra due anime diverse, mai di uno scoop, mai di una
notizia.
È troppo materna, troppo psicologa, la
giornalista, fino al punto di far dimenticare allo spettatore il motivo, quei
preziosissimi 90 minuti, per i quali si trova ad Algeri. Ha più l’aria di una
portavoce dell’Unicef, Mimma Melani, di una rappresentante di una forza di
pace, che di una reporter indipendente che dovrebbe esordire con l’adrenalina
di chi ha la convinzione di essere in procinto di comporre il pezzo che la
catapulterà tra i cronisti di guerra e non tra i confessori di pace.
Sono convintissimo che invertendo i
ruoli, il prodotto, che resta di ottima fattura, cambierebbe del tutto quanto a
risultati emotivi, con Mimma che saprebbe sicuramente diventare un’algerina
umiliata, ma non uccisa nella propria dignità e Elisabetta una reporter sadica,
attratta solo ed unicamente dal desiderio di riportare a casa la notizia del
secolo e che solo al termine dell’intervista avvertirebbe il disagio di non
aver saputo cogliere, per tempo, l’umanità della sua interlocutrice, perché
distratta dal morbo della propria professione.
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Foto di Luigi Scardigli.
[Venerdì 22 febbraio 2013 | 08:30 - © Quarrata/news]
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