mercoledì 22 febbraio 2012

LE 24 ROSE SCARLATTE DELL’EQUIVOCO


di Luigi Scardigli

È stato come assistere ad una partita di scacchi, per me, che gli scacchi, non fanno poi impazzire. Ma attorno al tavolo, a contendersi la vittoria, non c’erano due principianti qualsiasi, ma quattro professionisti, di rara bravura: l’intramontabile Paola Gassman, un incommensurabile Pietro Longhi, la macchietta, esemplare, Pierre Bresolin e la bravissima, seppur giovanissima, soprattutto rispetto ai suoi tre veterani maestri, Elisa Gallucci.

Certo, buona parte del merito, di questa riuscitissima interpretazione di Due dozzine di rose scarlatte, in scena ieri sera al teatro Yves Montand di Monsummano Terme, è anche e soprattutto del regista, Maurizio Panici, abile a non stravolgere e volgarizzare, seppur contestualizzandolo nei limiti di ogni ragionevole contemporaneità, la vecchia commedia, vecchia di più di ottant’anni, scritta da Aldo De Benedetti e riadattata nell’occasione da David Norsico.
E il pubblico, quello non giovanissimo abbonato alla stagione monsummanese, ha gradito eccome la leggerissima commedia dell’equivoco, ventiquattro rose scarlatte spedite ad una contessa e che, per un banale contrattempo, giungono ad errata destinazione, quella della moglie del mittente, che, per sostenere l’insostenibile leggerezza dell’essere – avrebbe commentato Kundera –, è costretto a fingersi l’amante misterioso, anzi mistero, che riesce nel suo involontario intento, far innamorare di nuovo una moglie ormai annoiata, incartapecorita sulla quotidianità di un rapporto che non ha più nulla, forse, da dirsi.
Nel mezzo, tutto il repertorio della commedia, con smorfie e pause degne della miglior scuola, con continui feedback teatrali, sorretti da un circolare flusso surreale, tragicomico, esaltato dalla dabbenaggine dell’avvocato, amico di famiglia, dall’incorreggibile slang ciociaro della cameriera e dalla navigata complicità dei due vecchi istrioni, Paola Gassman e Pietro Longhi, che le sanno tutte, ma proprio tutte e nonostante tutte, sembrano aver voglia di impararne delle nuove.
Certo, il lieto fine, per nulla manierato – la moglie che, dopo aver minacciato di abbandonare la casa, torna sui propri passi solo perché crede che l’amante sconosciuto sia il goffo avvocato amico di famiglia –, completa e ricuce perfettamente il cerchio del fraintendimento, lasciando aperta la porta del tranello nel quale chiunque, coinvolto nella scena, sembra poterci ricascare. Come l’epilogo sentimentale che deputa all’amore un ruolo di suprema e sublime consolazione, oltre il quale, ancora nessuno è riuscito a trovare nulla.
E lascia soprattutto passare lo spiffero della lezione, quella che i quattro professionisti hanno impartito a tutti quelli che si avvicinano al teatro, un teatro forse destinato a cadere inesorabilmente nel dimenticatoio, troppo impostato, religiosamente ligio ai paletti, non più consono ai tempi di reazione morale, né a quelli incandescenti della vita quotidiana, ma che resta un pertugio obbligato per chiunque decida di salire su un palcoscenico e si metta all’anima di andare ad incominciare.

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[Mercoledì 22 febbraio 2012 – © Quarrata/news 2011]

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