di Luigi
Scardigli
È stato come assistere ad una partita di scacchi, per me,
che gli scacchi, non fanno poi impazzire. Ma attorno al tavolo, a contendersi
la vittoria, non c’erano due principianti qualsiasi, ma quattro professionisti,
di rara bravura: l’intramontabile Paola Gassman, un incommensurabile Pietro
Longhi, la macchietta, esemplare, Pierre Bresolin e la bravissima, seppur
giovanissima, soprattutto rispetto ai suoi tre veterani maestri, Elisa
Gallucci.
Certo, buona parte del merito, di questa riuscitissima
interpretazione di Due dozzine di rose
scarlatte, in scena ieri sera al teatro Yves Montand di Monsummano Terme, è
anche e soprattutto del regista, Maurizio Panici, abile a non stravolgere e
volgarizzare, seppur contestualizzandolo nei limiti di ogni ragionevole
contemporaneità, la vecchia commedia, vecchia di più di ottant’anni, scritta da
Aldo De Benedetti e riadattata nell’occasione da David Norsico.
E il pubblico, quello non giovanissimo abbonato alla
stagione monsummanese, ha gradito eccome la leggerissima commedia dell’equivoco,
ventiquattro rose scarlatte spedite ad una contessa e che, per un banale
contrattempo, giungono ad errata destinazione, quella della moglie del
mittente, che, per sostenere l’insostenibile leggerezza dell’essere – avrebbe commentato Kundera –,
è costretto a fingersi l’amante misterioso, anzi mistero, che riesce nel suo involontario intento, far innamorare di
nuovo una moglie ormai annoiata, incartapecorita sulla quotidianità di un
rapporto che non ha più nulla, forse, da dirsi.
Nel mezzo, tutto il repertorio della commedia, con smorfie e
pause degne della miglior scuola, con continui feedback teatrali,
sorretti da un circolare flusso surreale, tragicomico, esaltato dalla
dabbenaggine dell’avvocato, amico di famiglia, dall’incorreggibile slang
ciociaro della cameriera e dalla navigata complicità dei due vecchi istrioni,
Paola Gassman e Pietro Longhi, che le sanno tutte, ma proprio tutte e
nonostante tutte, sembrano aver voglia di impararne delle nuove.
Certo, il lieto fine, per nulla manierato – la moglie che,
dopo aver minacciato di abbandonare la casa, torna sui propri passi solo perché
crede che l’amante sconosciuto sia il goffo avvocato amico di famiglia –,
completa e ricuce perfettamente il cerchio del fraintendimento, lasciando
aperta la porta del tranello nel quale chiunque, coinvolto nella scena, sembra
poterci ricascare. Come l’epilogo sentimentale che deputa all’amore un ruolo di
suprema e sublime consolazione, oltre il quale, ancora nessuno è riuscito a
trovare nulla.
E lascia soprattutto passare lo spiffero della lezione,
quella che i quattro professionisti hanno impartito a tutti quelli che si
avvicinano al teatro, un teatro forse destinato a cadere inesorabilmente nel
dimenticatoio, troppo impostato, religiosamente ligio ai paletti, non più
consono ai tempi di reazione morale, né a quelli incandescenti della vita
quotidiana, ma che resta un pertugio obbligato per chiunque decida di salire su
un palcoscenico e si metta all’anima di andare ad incominciare.
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[Mercoledì 22 febbraio 2012 – © Quarrata/news 2011]
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