di Luigi Scardigli
È doveroso, anche nel bel mezzo di una
debordante ondata emotiva quale è quella suscitata dalla morte improvvisa di
Whitney Houston (stamani, in un hotel di Beverly Hills), controllare le
adrenaline funerarie.
È vero, è morta una delle voci pop più
care e famose e belle, tra l’altro, di tutti i tempi ed è morta alla tenera età
di 48 anni, ma non si possono e non si devono dimenticare due cose,
fondamentali all’analisi del dolore: Whitney Houston è morta, probabilmente,
per uno degli innumerevoli cocktail di droga, vizio che ne ha contraddistinto
la passerella cosmica sulla quale è stata costretta a passeggiare negli ultimi
trent’anni, grazie ad un diaframma e ad un carnato con pochi altri simili;
la
regina triste del pop è deceduta dopo aver venduto 170 milioni di dischi, vinto
6 Grammy ed aver guadagnato – termine decisamente improprio: al suo
posto ci sarebbero volute essere tutte le mie amiche cantanti che si uccidono
per appena 50 euro a sera, nei localacci di second’ordine – una balla
incalcolabile di dollari, quelli che le hanno consentito di vivere, per tutta
la vita dal giorno della prima apparizione, ben oltre le righe toccate a tutte
le sue coetanee semplicemente normodotate.
«I soldi non fanno la felicità – sosteneva la realista
Marlene Dietrich, altra regina del firmamento artistico –, ma quando sono triste, preferisco piangere sulla mia Rolls
Royce, che sul tram».
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[Domenica 12 febbraio 2012 – ©
Quarrata/news 2011]
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