lunedì 6 febbraio 2012

LA CULTURA È DI GENERE FEMMINILE


di Luigi Scardigli

C’è modo e modo di raccontare la storia; c’è modo e modo di parteggiare per qualcuno; c’è modo e modo per essere carinamente femministe. Daniela Morozzi e il suo partner non forse occasionale – visto il feeling che li lega ogni oltre ragionevole affiatamento –, il polistrumentista Stefano Cocco Cantini, ieri sera, al teatro di Casalguidi, ne hanno dato una bella dimostrazione: lampante, netta, precisa, senza se e senza ma, seppur sottile, sussurrata.

Lo hanno fatto riproponendo Articolo femminile, un reading surreale di Patrizia Turini e Leonardo Ciardi sulla storia delle donne, di alcune di loro, meglio, quelle che più o meno inconsapevolmente hanno forse fatto la storia dell’umanità, soprattutto quella femminile. Appoggiandosi però non sui dati, certi e inconfutabili, di Wikipedia, ma su quanto per ciascuna di loro qualche giornalista ha voluto tracciarne un profilo diverso, poco quotidiano, eterno, dunque.
E allora, sulle note dei tasti o dei fiati di Stefano Cocco Cantini, jazzista di Follonica che vanta collaborazioni e amicizia con Bollani, Fresu e Rava, per restare in Italia, ma anche con Chet Baker, Dave Holland, Ray Charles, Billy Cobham, Michel Petrucciani e altri mostri sacri, se ci spostiamo un po’ più in là, Daniela Morozzi ha deciso di prendere a campione qualche articolo, quotidiano sì, ma leggendario, lasciato ai posteri dalle firme, autorevoli perché senza tempo, di qualche collega con la C maiuscola: Vittorio Zucconi che ha descritto, dalle colonne di “Repubblica”, la giornata memorabile di Rosa Park, la donna di colore che decise, su un autobus degli Stati Uniti e solo perché le facevano male i piedi, di non alzarsi dal posto riservato ai bianchi, scatenando l’inferno; o quando Concita De Gregorio, sempre dalle stanze della solita redazione giornalistica, ha raccontato il sogno di Consuelo Velázquez, la ventiquattrenne messicana che, senza aver mai forse baciato un uomo, ebbe l’illuminazione di scrivere e cantare la canzone d’amore ritenuta più bella del secolo, Bésame mucho; o quando Emanuela Audisio, ritrattista specializzata, cronometrò i 400 metri dell’aborigena Cathy Freeman, i 400 metri più lunghi o più corti di tutti i tempi e non solo in atletica leggera.
E poi Roberto Saviano e il necrologio di Miriam Makeba, Mama Africa, la donna della rivolta sudafricana che la coincidenza ha voluto far morire a Castel Volturno, uno di quegli hinterland dell’Europa bianca ripopolati dal neo-schiavismo dell’importazione degli uomini di fatica di colore. O l’ultimo viaggio su un barcone di disperati verso le coste della fortuna della donna eritrea morta dando alla luce la sua secondogenita descritto dal giornalista de l’Unità Giovanni Maria Bellu. O il lucido martirio, rimasto inascoltato, delle donne di piazza di Maggio, in Argentina, le moglie e le madri di tutti i desaparecidos. Con un intermezzo ironico, enigmistico, quello offerto dalla lettura di una piccola interpretazione offerta da Stefano Bartezzaghi estratta da uno dei suoi libri, Non se ne può più, un’originale trasposizione dal maschile al femminile, un passaggio, quello da un genere ad un altro, che cambia radicalmente il senso stesso del termine.
Lo spettacolo si è chiuso con i ringraziamenti di Daniela Morozzi e un saluto, anzi, due, particolari, molto particolari: all’associazione pistoiese Liberetutte, della quale è fiera testimonial, e a Massimo Talone, «uno che ha avuto il coraggio – ha detto l’attrice – in un momento come questo, di aprire un teatro, il Moderno di Agliana». Massimo Talone è un uomo, però, è vero, ma è un uomo di cultura – e la cultura, non ci son dubbi, è di genere femminile.

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[Lunedì 6 febbraio 2012 – © Quarrata/news 2011]

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