di Luigi Scardigli
C’è modo e modo di raccontare la
storia; c’è modo e modo di parteggiare per qualcuno; c’è modo e modo per essere
carinamente femministe. Daniela Morozzi e il suo partner non forse occasionale
– visto il feeling che li lega ogni oltre ragionevole affiatamento –, il polistrumentista Stefano Cocco Cantini, ieri sera, al
teatro di Casalguidi, ne hanno dato una bella dimostrazione: lampante, netta,
precisa, senza se e senza ma, seppur sottile, sussurrata.
Lo hanno fatto riproponendo Articolo
femminile, un reading surreale di Patrizia Turini e Leonardo Ciardi
sulla storia delle donne, di alcune di loro, meglio, quelle che più o meno
inconsapevolmente hanno forse fatto la storia dell’umanità, soprattutto quella
femminile. Appoggiandosi però non sui dati, certi e inconfutabili, di Wikipedia,
ma su quanto per ciascuna di loro qualche giornalista ha voluto tracciarne un
profilo diverso, poco quotidiano, eterno, dunque.
E allora, sulle note dei tasti o dei
fiati di Stefano Cocco Cantini, jazzista di Follonica che vanta collaborazioni
e amicizia con Bollani, Fresu e Rava, per restare in Italia, ma anche con Chet
Baker, Dave Holland, Ray Charles, Billy Cobham, Michel Petrucciani e altri
mostri sacri, se ci spostiamo un po’ più in là, Daniela Morozzi ha deciso di
prendere a campione qualche articolo, quotidiano sì, ma leggendario, lasciato
ai posteri dalle firme, autorevoli perché senza tempo, di qualche collega con
la C maiuscola: Vittorio Zucconi che ha descritto, dalle colonne di
“Repubblica”, la giornata memorabile di Rosa Park, la donna di colore che
decise, su un autobus degli Stati Uniti e solo perché le facevano male i piedi,
di non alzarsi dal posto riservato ai bianchi, scatenando l’inferno; o quando
Concita De Gregorio, sempre dalle stanze della solita redazione giornalistica,
ha raccontato il sogno di Consuelo Velázquez, la ventiquattrenne messicana che,
senza aver mai forse baciato un uomo, ebbe l’illuminazione di scrivere e
cantare la canzone d’amore ritenuta più bella del secolo, Bésame mucho;
o quando Emanuela Audisio, ritrattista specializzata, cronometrò i 400 metri
dell’aborigena Cathy Freeman, i 400 metri più lunghi o più corti di tutti i
tempi e non solo in atletica leggera.
E poi Roberto Saviano e il necrologio
di Miriam Makeba, Mama Africa, la donna della rivolta sudafricana che la
coincidenza ha voluto far morire a Castel Volturno, uno di quegli hinterland
dell’Europa bianca ripopolati dal neo-schiavismo dell’importazione degli uomini
di fatica di colore. O l’ultimo viaggio su un barcone di disperati verso le coste
della fortuna della donna eritrea morta dando alla luce la sua secondogenita
descritto dal giornalista de l’Unità Giovanni Maria Bellu. O il lucido
martirio, rimasto inascoltato, delle donne di piazza di Maggio, in Argentina,
le moglie e le madri di tutti i desaparecidos. Con un intermezzo
ironico, enigmistico, quello offerto dalla lettura di una piccola
interpretazione offerta da Stefano Bartezzaghi estratta da uno dei suoi libri, Non
se ne può più, un’originale trasposizione dal maschile al femminile, un
passaggio, quello da un genere ad un altro, che cambia radicalmente il senso
stesso del termine.
Lo spettacolo si è chiuso con i
ringraziamenti di Daniela Morozzi e un saluto, anzi, due, particolari, molto
particolari: all’associazione pistoiese Liberetutte, della quale è fiera
testimonial, e a Massimo Talone, «uno che
ha avuto il coraggio – ha detto l’attrice – in un momento come questo, di
aprire un teatro, il Moderno di Agliana». Massimo
Talone è un uomo, però, è vero, ma è un uomo di cultura – e la cultura, non ci son dubbi, è di genere femminile.
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[Lunedì 6 febbraio 2012 – ©
Quarrata/news 2011]
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