FIRENZE. Mauro Chessa, Presidente della Fondazione dei Geologi della Toscana, ci ha inoltrato questo suo scritto, al quale segue una risposta del Presidente Enrico Rossi:
GEOLOGIA
PER UNA NUOVA POLITICA
(NEL
SENSO DELLA POLI-ETICA E NON DEI PARTITI)
«Le recenti alluvioni che hanno colpito, ancora una volta, la
Toscana, sono un ulteriore campanello d’allarme che chiama in causa le
responsabilità di tutti e impone svolte radicali nell’uso del territorio, nelle
politiche di investimento e nel modello di sviluppo», queste le parole del
presidente della Regione Toscana (Massa, 12 novembre 2012), parole coerenti con
precedenti affermazioni: «La tutela del nostro territorio come elemento di
identità assoluto, è tanto più forte quanto più svincolata dalla responsabilità
di produrre reddito.» (Convegno nazionale sul caso toscano – dalla parte
del territorio, Firenze 24 marzo 2012).
Queste encomiabili dichiarazioni
risultano però stridenti rispetto ad alcune realtà toscane. Partirò da aspetti
che non hanno immediata connessione con il dissesto idrogeologico, ma che sono
fortemente indicativi di quel rapporto con il territorio che Rossi,
giustamente, mette in discussione. Per esempio nel comprensorio marmifero si
raggiunge la densità di 7 cave per Kmq, con la totale devastazione di un
territorio che ha identità da vendere. A fronte di questo enorme peso
ambientale e sociale il comparto marmifero restituisce pochissimo: il Comune di
Carrara è il secondo più indebitato d’Italia, il poco che ottiene dalle
attività estrattive viene impiegato per l’attività stessa e non ad incremento
della ricchezza diffusa. Negli ultimi decenni, con le nuove tecnologie, si è
avuta una drammatica riduzione degli occupati: quelli direttamente impiegati in
cava sono passati da 14.000 a 1.000. Ancora più pesante la contrazione dell’indotto:
si è sviluppata la produzione del carbonato di calcio che ha una filiera assai
più corta della lavorazione del marmo, oltre ad essere sempre più diffusa l’esportazione
del marmo grezzo in luogo della lavorazione in loco. È evidente quindi come si
concretizzi la separazione tra territorio e la popolazione: nonostante la
natura pubblica di una risorsa non rinnovabile come il marmo, nonostante il
pesantissimo prezzo ambientale che l’estrazione provoca, nonostante la natura
giuridica delle cave (dal tempo degli editti estensi di proprietà pubblica) il
privato attua una produzione scollegata dal territorio, nelle sue componenti
ambientali e sociali, che risulta sempre più irreversibilmente impoverito.
Un
altro esempio toscano di spoliazione del territorio dalla sua valenza
identitaria è la geotermia, propagandata come una fonte economica,
inesauribile, che non produce inquinamento. I valori misurati da ARPAT dicono
invece che produce circa 2.000.000 di tonnellate di CO2 all’anno (dato 2007):
la centrale ad olio di Livorno, a parità di energia prodotta, emette meno CO2
delle centrali geotermiche dell’Amiata. Ma la CO2 non preoccupa gli abitanti
delle aree geotermiche quanto le altre sostanze che non vengono trattenute: la
sola centrale Bagnore 3 ogni giorno emette 1 ton di acido solfidrico, 4 ton di
ammoniaca, 7 ton di metano, 1,2 Kg di acido borico, 96 g di mercurio, 9 g di
arsenico, 214 ton di CO2. C’è poi la questione delle interferenze con la falda
che alimenta l’acquedotto del Fiora, che serve un’utenza di 700.000 abitanti
equivalenti: in 30 anni la portata delle sorgenti si è ridotta dai 300 milioni
di mc degli anni ‘70 ai 90 di oggi. La diminuzione dell’acqua ha corrisposto
all’incremento del contenuto in Arsenico. A ciò si aggiunga che la falda
geotermica più superficiale, che nei prossimi decenni, con l’esaurimento dei
combustibili fossili, avrebbe avuto un significato strategico fortissimo, è
stata depressurizzata e abbandonata. A questo imponente impatto della geotermia
tradizionale (altrove si utilizzano tecnologie innovative, assai meno
impattanti) corrisponde, secondo l’IRPET, lo sconcertante fatto che i comuni
amiatini sono i più poveri della Toscana.
Questi sono due casi dove si registra lo sfruttamento di beni
comuni con gravi danni e depauperamento del territorio, senza che vi sia
distribuzione di ricchezza; lo sfruttamento è palesato nell’arricchimento di
alcuni soggetti a discapito della collettività. Quale sentimento di identità,
quale condivisione possono favorire queste situazioni? È tuttavia necessario
osservare che in generale, riferendoci al territorio in se e non alle sue
componenti storicamente individuate come ‘risorse’ (acqua, minerali etc.), è
riduttivo ricondurre la lettura alla relazione tra sfruttatore e sfruttato; per
comprendere è necessario riflettere sulla percezione diffusa del territorio. Il
passaggio, negli ultimi decenni, da una gestione di tipo familiare delle aree a
destinazione agro-silvo-pastorale, ed in genere del territorio, a quella
attuale di carattere industriale, ha determinato la diminuzione della
sensibilità nei riguardi della ‘terra’, dalla quale il nucleo familiare
otteneva sostentamento ed alla quale era legato per tradizione culturale e per
successione genealogica. Era quindi dominante il criterio della conservazione
del bene. Con la società industriale il legame tra le comunità e territorio è
divenuto essenzialmente economico: il valore della terra è commisurato alla sua
commerciabilità e spesso al pregio edilizio. Si tratta di una variante del
post-fordismo, dove la rottura del patto sociale non è la portante di un
processo speculativo, nel quale sono individuabili sfruttatore e sfruttato, ma
diviene il paradigma accettato della cultura del profitto che regola la nostra
società. Significativo il caso di Marina di Campo (Isola d’Elba), alluvionata
nel novembre 2011. L’abitato è sorto in una piana, chiamata fino a pochi anni
fa Maremma dell’Elba. Si è urbanizzata la duna costiera, lasciando al
retro la zona umida che conserva il toponimo Stagno, poi si è
urbanizzato lo stagno strizzando il fosso che scendeva a fianco dell’area
paludosa e riducendo il canale di bonifica ad un budello. Le conseguenze sono
state disastrose. Non c’è l’intervento di interessi imprenditoriali
prevaricanti la volontà delle popolazioni locali, gli abitanti stessi
(cittadini e amministrazioni) hanno totalmente rimosso le consapevolezza della
natura del territorio dove vivono, in nome di una ‘valorizzazione’ a breve
termine e di corto respiro.
Analoghe le valutazioni per Aulla, espansa nell’alveo del Magra
nel rispetto degli strumenti urbanistici che non hanno tenuto conto di una
conclamata situazione di pericolo, o per Albinia, dove si è verificato un
evento ampiamente prevedibile. Ma il nostro territorio è costellato da molte altre situazioni più
particolari e minute, che proprio per questo, essendo legate ad una specifica
volontà realizzativa, ancora meglio evidenziano lo strappo del rapporto tra i
residenti e la coscienza del territorio. L’esempio è Mulazzo, duramente colpito
dai dissesti del 2011: le ricognizioni hanno condotto alla individuazione di
molte riduzioni delle sezioni fluviali, palesemente sottodimensionate rispetto
alle necessità idrauliche. Altra faccia della rottura del rapporto con il
territorio è l’abbandono delle aree la cui produttività non raggiunge gli
standard industriali; la dismissione dell’agricoltura montana ha espanso le
superfici boscate non soggette a cure colturali, colonizzate da specie che
crescendo diventano instabili. Durante gli eventi meteorici intensi si hanno
imponenti decoticamenti, con alberi e detriti che vanno ad ostruire le luci dei
ponti e restringere le sezioni di deflusso. I costi sociali ed economici, se
rientrassero in qualche contabilità decisionale, da soli giustificherebbero la
manutenzione di tali aree. Invece il ‘grande cantiere’ per la messa in
sicurezza idrogeologica del territorio – che a noi geologi risulta il minimo
sindacale in termini di governance – sconta sia la diffidenza dei cittadini,
perché percepito come una tassa e non come una diversa modalità della
produzione, sia l’avversione dei decisori politici, che concepiscono i grandi cantieri
come regolatori economici: non interessa una moltitudine di piccoli interventi
ma appalti faraonici, generatori di PIL, per i quali l’incremento dei costi in
corso d’opera è blandamente contrastato e forse persino gradito, vedi le grandi
infrastrutture, regolate da un project financing cucito per lasciare briglia
sciolta al ricarico attraverso i sub-appalti e gli ‘imprevisti’. Così accade
che il DPEF 2013 della Toscana, redatto mentre il grossetano andava sott’acqua,
prevede 56 milioni alla voce “prevenzione dal rischio idrogeologico”, che non
sono pochi, ma molto meno dei 200 milioni alla voce “interventi per le
infrastrutture”. La messa in sicurezza idrogeologica è un’utopia in una società
dove l’obbiettivo è il PIL e non la ricerca della qualità della vita, di questa
e di quelle a venire. Le ripetute incursioni legislative post-calamità sono
pannicelli caldi, non modificano strutturalmente il problema, inoltre, oltre ad
essere tardive, sono apprezzabili nelle finalità ma oscillano tra emotività e compromesso,
così da risultare ottuse nell’articolato e negli esiti; la nostrana L.R. 21/12,
sulle aree a maggior rischio idraulico, non fa eccezione. Il comune
denominatore tra i casi che ho portato ad esempio è la rottura del rapporto tra
l’uomo ed il territorio, i primi due (Apuane e Amiata) sono solo apparentemente
diversi da quelli legati al dissesto idrogeologico perché la contrapposizione
di interessi è evidente nella separazione delle figure che li incarnano. «Non
possiamo pretendere che le cose cambino, se continuiamo a fare le stesse cose» (Einstein);
l’alternativa non può prescindere da un diverso paradigma socio-economico,
l’attuale ha stabilito un legame surrettizio tra l’economia di mercato e la
percezione del benessere, non misurato sulla concreta qualità della vita ma
sulla capacità d’acquisto di prodotti artatamente effimeri, che disconosce la
sostenibilità lasciando ampi margini al sovra-sfruttamento delle risorse
naturali, all’aumento dei rifiuti e dell’inquinamento, alla mercificazione dei
beni, dei servizi e del lavoro. Il disinnamoramento per i partiti ha motivi
contingenti ma cresce anche sull’incapacità di delineare vie d’uscita all’insostenibilità
del sistema nelle sue componenti produttive, economiche, sociali, ecologiche.
La ‘politica’ non offre sbocchi, non ha la forza per guidare la trasformazione
che la società attende, ma la società stessa non ha risolto la tensione
divaricante tra il consumismo e lo schiacciante peso che questo esercita sulla
sostenibilità. «Nel mondo c’è quanto basta per le necessità dell’uomo, ma
non per la sua avidità» (Gandhi – prima che il calcolo dell’impronta
ecologica traducesse drammaticamente in numeri quest’affermazione), l’alternativa
non può prescindere dal sancire il dovere di ogni generazione di consegnare a
quella successiva un mondo non depredato, dalla centralità del lavoro quale
espressione dell’equilibrio qualitativo e quantitativo tra produzione e
bisogni, ma anche dalla rivitalizzazione della democrazia: è determinante il
coinvolgimento delle popolazioni nelle politiche della sostenibilità,
territoriale, economica e sociale; nessuna di queste può aver successo se non è
condivisa, come mostra settorialmente l’analisi delle cause dei ‘disastri
naturali’. In questa luce la trasformazione delle Province in enti di secondo
livello (cosa diversa dall’accorpamento), senza elezione degli amministratori,
è motivo di forte preoccupazione, per l’ulteriore allontanamento dei cittadini
dai centri decisionali. È arduo ricucire la cesura tra territorio e popolazione
che la cultura del profitto ha determinato, come riconoscono esplicitamente le
affermazioni del presidente Rossi, in assenza di una riflessione collettiva sul
nostro modello sociale; come ben documentato nel lavoro di Fitoussi e Laurent
(economisti di fama internazionale, tutt’altro che rivoluzionari, che
analizzano l’attuale crisi e delineano una exit strategy) i tre corni
del problema – la
questione economica, quella ecologica e quella sociale – si aprono gli uni agli altri
e si determinano reciprocamente. Quindi a fianco della riflessione sociale e
politica deve esserci una riflessione ambientale (non necessariamente
ambientalista, nell’accezione comune), sul rapporto tra la società e il
territorio, le sue risorse, le sue dinamiche, per la quale il contributo delle
scienze della Terra è imprescindibile. De Gasperi disse che la differenza tra
un politico e uno statista sta nella prospettiva temporale: il primo guarda
alle prossime elezioni il secondo alle prossime generazioni. Le affermazioni
del presidente Rossi che ho riportato sono da statista, traduca questo respiro,
traduca la tensione verso «svolte radicali nell’uso del territorio, nelle
politiche di investimento e nel modello di sviluppo» nella prassi
amministrativa della Regione e conti sulla competenza dei geologi. Oltre che
nella quotidianità lo attendiamo anche nei grandi appuntamenti, sui tavoli
della Regione giacciono le bozze di provvedimenti nodali: la revisione della
1/2005, della 78/98, il Piano paesaggistico, la legge sulla difesa del suolo,
il Piano energetico, ed anche una legge sulla partecipazione che valorizzi l’apporto
positivo e propositivo delle componenti sociali, e non serva a burocratizzare
le vertenze che i cittadini mettono in essere per difendersi dall’aggressione
al territorio con il quale hanno un legame identitario.
Mauro Chessa
Presidente Fondazione dei Geologi della
Toscana
REPLICA DEL PRESIDENTE ENRICO ROSSI
la ringrazio per le sue riflessioni. Riguardo al suo invito non
posso che dirle che siamo a metà della legislatura e già penso che la Toscana
abbia compiuto importanti passi avanti nel cambiamento delle politiche del
territorio. In piena coerenza con il programma di legislatura con cui ci
eravamo presentati abbiamo puntato il più possibile sulla salvaguardia del territorio
agricolo e la tutela del paesaggio. Siamo dell’idea che questa direzione – combinata con il rilancio
del manifatturiero-sia l’unica in grado di far ripartire uno sviluppo di
qualità nella nostra regione. Abbiamo ripreso una discussione positiva e utile
con i comuni per quanto riguarda i piani strutturali, e abbiamo compiuto un
altro passaggio straordinario con la “vestizione” dei vincoli. Non temo
smentita nel dire che nel governo del territorio abbiamo messo a punto nuove
politiche di contrasto al consumo di suolo, i cui risultati però saranno
pienamente apprezzabili soltanto in futuro. E’ stata rafforzata l’attività di
verifica della coerenza tra il Piano di indirizzo territoriale regionale e la
pianificazione urbanistica locale, una attività di verifica resa possibile
attraverso le osservazioni e, quando necessario, il ricorso alla conferenza
paritetica interistituzionale. Le diverse integrazioni alla legge regionale sul
governo del territorio, necessarie per recepire provvedimenti nazionali, sono state
usate al fine di iniziare a diversificare le procedure per il riuso delle aree
già urbanizzate rispetto al nuovo consumo di suolo agricolo. Ciò sia nel 2011
con la legge 40, che ha introdotto una nuova norma per la rigenerazione urbana,
che con la legge 52/2012 che disciplina le procedure per le grandi superfici di
vendita, differenziandole a seconda che interessino edifici già esistenti o
nuove aree agricole, e prescrivendo in questo ultimo caso la pianificazione
sovracomunale e la distribuzione degli oneri di urbanizzazione tra tutti i
comuni. Sugli aspetti quantitativi del consumo di suolo sono stati affinati i
sistemi di monitoraggio e introdotti nuovi indicatori, ad esempio la
valutazione degli effetti indotti dalle nuove urbanizzazioni (ad esempio la
frammentazione) sul territorio e sul paesaggio. Con la revisione della Legge 1
inoltre porteremo avanti, con dispositivi operativi ad hoc, il principio
secondo cui nuovi impegni di suolo vengono consentiti solo qualora non
sussistano alternative di riutilizzazione e riorganizzazione degli insediamenti
e delle infrastrutture esistenti. A tutto questo aggiungo altre due svolte non
meno radicali: il divieto a costruire nelle zone ad alto rischio idraulico, che
purtroppo costituiscono il 7% del territorio pianeggiante della Toscana, e la
riforma dei Consorzi di bonifica, che vogliamo finalizzare alle attività di
manutenzione. Per quanto riguarda invece la qualità del territorio e del
paesaggio, nella redazione del Piano paesaggistico regionale stiamo lavorando a
una interpretazione che tenga conto dei tanti e vari aspetti che compongono l’assetto
complessivo, come l’ idrogeomorfologia, il territorio rurale, la salvaguardia
degli ecosistemi, il possibile sviluppo degli insediamenti come policentrici.
Per ora abbiamo ottenuto, primi in Italia, la validazione da parte del
Ministero per i beni e le attività culturali, del lavoro di vestizione dei
vincoli da noi previsto. Come vede la nostra idea di governo del territorio non
manca di attenzione agli aspetti di salvaguardia sia degli ambienti
strettamente naturali che dei paesaggi “artificiali” che pure rendono celebre
la nostra regione nel mondo; nonché della salvaguardia anche delle vite dei
cittadini di fronte a possibili rischi idrogeologici. Così come per l’aspetto
storico-artistico, non è semplice governare un territorio garantendone sia la
vitalità e lo sviluppo economico che la tutela dell’esistente: la Toscana è un
capolavoro, ma non è un museo. Il nostro impegno è tuttavia di cercare di
portare avanti entrambi gli aspetti nel miglior modo possibile e di costruire
un futuro vivibile anche per le nuove generazioni.
Con i miei più
cordiali saluti,
Enrico Rossi
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[Giovedì 20
dicembre 2012 - © Quarrata/news 2012]
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Grazie.