di LUIGI SCARDIGLI
Un cinepanettone con l’uvetta candita andata a male quello
di Antonio Albanese, un Tutto tutto
niente niente parecchio inutile, che stride mostruosamente con il
trascorso, tanto esilarante, quanto pungente, dell’onemanshow di Lecco. E non
solo perché i tre personaggi attorno ai quali si sviluppa la pellicola sono
rispettivamente tre mostri sacri della sua comicità, Cetto, Frengo e
l’impresario del nord est, quanto perché il paradosso politico e istituzionale,
volutamente irrisorio e farsesco, corre seriamente il rischio di essere una
pantomima slegata dalla realtà, che invece è molto peggio e che va dissacrata
con ben altre armi, anche da un punto di vista satirico.
Se posso permettermi il lusso di suggerire ad Antonio Albanese
qualcosa, è quella di consigliargli di tenersi, per un po’, alla larga dalle
sale cinematografiche e restare invece stretto contatto con il teatro. Qualche
risata infatti, figlia soprattutto del suo perfetto amalgama con gli accenti,
un pieno possesso dello slang calabrese, veneto e pugliese, non può certo
esentare la proiezione dalla totale bocciatura, anche perché, al Buster Keaton del terzo millennio,
nessuno, giustamente, è disposto a perdonare nulla.
Un film che non lascia traccia, che irretisce ulteriormente
per la presenza, muta e goffa, di un Paolo Villaggio (nobile della risata
decaduto ormai da molti anni, anche per l’età, vero) Presidente del Consiglio
che si limita a sbranare, di nascosto, qualche pasticcino. Peccato, ma in virtù
di quanto e come fatto finora, rimando Antonio Albanese ad altra data. E con
una certa impazienza.
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Le pagine riprodotte appartengono a La Nazione.
[Giovedì 27 dicembre 2012 - © Quarrata/news 2012]
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