PISTOIA. Il dottor Paolo Caselli mi scrive:
Caro Edoardo,
l’approssimarsi del Natale costituisce
sempre un evento nodale per i Cristiani e impone riflessioni che introducono
novità nella nostra esistenza, seguendo il mutamento di mente, la metànoia
evocata da Cristo.
A questo proposito riflettevo come
spesso siamo spettatori passivi degli avvenimenti e ci affidiamo ai comuni
stereotipi che i mezzi di comunicazione più o meno insistentemente ci
impongono.
Allora, se penso che Cristo è nato nel silenzio
assoluto, annientandosi poi gratuitamente per gli uomini, mi vengono alla mente
tanti Maestri sconosciuti, spesso emarginati in vita, salvo poi rivalutarli “ad
usum delphini” post mortem e tanti uomini che hanno sacrificato la loro
esistenza per un ideale dei quali, in genere per opportunismo, non abbiamo il
coraggio di riproporre le istanze.
Ma oggi, chi sarebbe disposto a
sacrificarsi per un ideale?
Padre Giovanni Vannucci, uno dei più
grandi uomini Spirituali del ’900, Contadino del cielo come amava
definirlo il confratello Padre Turoldo, era solito dirmi che l’uomo preferisce
purtroppo la complicazione alla semplicità, perché questa è limpida e trasparente,
mentre l’altra consente le vie traverse e confuse spesso per giustificare in buona
pace il malfare.
Siamo tutti azzeccagarbugli!
Credo quindi opportuno ricordare il
Natale con essenziale semplicità, evitando tutte le sovrastrutture che la
nostra dissociata mente vi ha costruito sopra. Ed a questo proposito desidero
con gioia inviarti un Pensiero sul Natale, credo quanto mai attuale, di Don
Ernesto Buonaiuti.
Un caro saluto e Buon Natale augurando
a Tutti di poter seguire l’essenziale: La via della Pura Semplicità.
Paolo
NATALE 1944
La celebrazione di una nascita
prodigiosa, in coincidenza col solstizio d’inverno, sprofonda le sue radici
nelle più vecchie consuetudini sacrali del nostro mondo mediterraneo. Non per
nulla la rievocazione del Natale è raccomandata soprattutto alla forma più
embrionale e primitiva del nostro passaggio dalla preistoria alla storia,
all’attività pastorale. Molti secoli prima che la società cristiana fissasse al
25 dicembre la commemorazione solenne della nascita di Cristo, nel Vicino
Oriente la religione di Zarathustra, affidata alla propaganda dei Magi e
rielaborata attraverso le mirabili speculazioni astronomiche del mondo
assiro-babilonese, aveva educato all’esaltazione e alla commemorazione di
Mitra, Dio del Sole e della verità, nel giorno stesso in cui, dopo avere nel
primo punto del Capricorno cessato di scendere sotto l’Equatore e dopo essersi
arrestato per riavvicinarglisi, il Sole riprende il suo cammino trionfale sulle
tenebre, aggiungendo, istante dopo istante, un più ampio circolo al suo
quotidiano cammino.
C’è cosa che sconvolga più in
profondità lo spirito umano del contrasto ritmicamente periodico fra la luce e
le tenebre? E c’è antitesi che meglio si sarebbe potuta, offrire come termine
di comparazione alla nostra sensazione del conflitto incessante fra bene e
male, fra verità e menzogna, fra chiarezza ed insidia, fra ideale e realtà, che
il contrasto familiare fra la luce e le tenebre?
C’è da pensare quale sia stato
inizialmente lo sgomento dei primi uomini che osservarono con trepidante
ansietà l’assottigliarsi progressivo della durata del giorno, dal solstizio
estivo al solstizio invernale. Non avranno essi potuto temere che la luce
dovesse sempre più immiserirsi e rattrappirsi, fino a cedere, disfatta, il
posto al dominio incontrastato ed irresolubile della notte? E invece ecco che
ad un certo momento il sole, dopo un istante di esitazione, sembrava debellare
l’insidia delle tenebre, per riprendere vittoriosamente il suo cammino
trionfale. La durata della luce si protraeva, fino a raggiungere la massima
durata, quando il sole toccava il primo punto del Cancro.
Esiste dunque un parallelismo perfetto
fra il decorso delle peregrinazioni solari e il decorso delle peregrinazioni
umane. Anche la verità, che è la luce dello spirito; anche il bene, che è
l’alimento del cuore; anche la giustizia, che è l’ideale della vita, aggregata;
subiscono le loro oscillazioni e sono votate agli immancabili ritorni. Il
solstizio d’inverno merita di essere celebrato, come l’inizio simbolico di ogni
ripresa, nella spiritualità e nella riaccensione dei valori eterni.
Mitra non era stato che un
prefiguratore di Cristo. Il Sol invictus doveva cedere il posto al Sol
salutis.
Non sappiamo se noi esageriamo dicendo
che da quando per la prima volta fu ufficialmente sanzionata e canonizzata la
commemorazione della natività di Cristo al 25 dicembre, ad oggi, attraverso
tanto lungo decorso di secoli, la commemorazione natalizia mai si è presentata
tanto incisivamente significativa per noi come quest’anno.
Siamo ad un vero solstizio invernale
della civiltà e della esperienza sorta dalla predicazione evangelica. Ci
sarebbe da disperare dell’avvenire superstite, della luce delle nostre
tradizioni e dei nostri ideali, se l’avvento del Sol salutis non ci
avesse insegnato che quando tutto giace nelle tenebre e tutto tace nello
sgomento e nell’apprensione, il sole riprende il suo cammino ascensionale per
guadagnare, passo passo, sulla foschia della menzogna, della viltà,
dell’ingiustizia, della barbarie, un sopravvento che è, sì, lento e faticoso,
ma è anche certo ed infallibile.
Don Ernesto Buonaiuti
Caro Paolo…
te le ricordi le lunghe mattinate al
Forteguerri?
Erano mezzo secolo fa: un abisso di
tempo, a guardarle con gli occhi dell’umanità, che i lirici greci definivano oligochrònia,
“di breve durata”; ma non più di “uno sputo in terra”, se viste con la lente di
Dio, l’infinità.
LA FORTUNA
«Maestro
mio», diss’ io, «or mi di’ anche:
questa
Fortuna di che tu mi tocche,
che
è, che i ben del mondo ha sì tra branche?».
E
quelli a me: «Oh creature sciocche,
quanta
ignoranza è quella che v’offende!
Or
vo’ che tu mia sentenza ne ’mbocche.
Colui
lo cui saver tutto trascende,
fece
li cieli e diè lor chi conduce
sì,
ch’ogne parte ad ogne parte splende,
distribuendo
igualmente la luce.
Similemente
a li splendor mondani
ordinò
general ministra e duce
che
permutasse a tempo li ben vani
di
gente in gente e d’uno in altro sangue,
oltre
la difension d’i senni umani;
per
ch’una gente impera e l’altra langue,
seguendo
lo giudicio di costei,
che
è occulto come in erba l’angue.
Vostro
saver non ha contasto a lei:
questa
provede, giudica, e persegue
suo
regno come il loro li altri dèi.
Le
sue permutazion non hanno triegue:
necessità
la fa esser veloce;
sì
spesso vien chi vicenda consegue.
Quest’
è colei ch’è tanto posta in croce
pur
da color che le dovrien dar lode,
dandole
biasmo a torto e mala voce;
ma
ella s’è beata e ciò non ode:
con
l’altre prime creature lieta
volve
sua spera e beata si gode.
[Dante, Inferno, VII]
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Noi ci siamo incrociati lì e sulla stessa
sponda. Cattolica.
Poi il tempo è iniziato a scorrere:
lento e inesorabile, impercettibile e crudele. Qualche anno dopo quel nostro
incontro, quando un compagno d’armi di mio padre – Italo Mason, di Treviso –
venne a ricercarlo a 30 anni secchi di distanza dalla guerra passata insieme,
quei 30 anni mi parvero (ancora) un’eternità invalicabile.
E invece eccoci qua, caro Paolo: io
sopravvissuto al ginnasio della Leda Mansi (con cui riallacciai cordiali
rapporti decenni dopo…) e tu uscito dalle mani della Danesi (o sbaglio?).
C’era la San Vincenzo de’ Paoli, c’era
don Gargini, c’era Sauro Becattini, c’era la Tommasina Mandorli, il cui figlio
ha curato il mio infarto di qualche anno fa.
L’abisso si è allargato, come vedi, e,
nell’aprirsi del chàsma – la bocca dell’abisso, il gap temporale –
abbiamo seguito strade diverse.
Eppure siamo sempre qui: tu cerchi ancora
la Verità negli ideali di un tempo, io ho cambiato punto di prospettiva, ma sto
ancora cercando la verità con una lotta che non è mai venuta meno e di
cui – credimi – sono molto laicamente fiero: cioè senza alcuna superbia (che
invece vedo, purtroppo, dilagare altrove).
E mentre tu mi saluti ancora come se
stessimo salendo i pochi scalini dell’androne sinistro del Forteguerri (quelli
che portavano alle toilettes, sala di incontro di tutti noi come – absit iniuria
verbis! – la Sala Terzani di quell’orrore che mi sembra essere la
Biblioteca San Giorgio, una biblioteca che ha l’ingresso spostato dalla parte
del… l’innominabile), io ti rispondo ancora con la stessa semplicità con cui ci
parlavamo mezzo secolo fa.
Mezzo secolo, Paolo. Un mare infinito
per gli uomini che durano poco: uno sputo in terra se guardato con la lente di
Dio.
Antonio Nardi, socialista craxiano come
me, ma diversamente da me cattolico fin nel midollo, grande amico – come avrai
letto su questo blog –, mi diceva che non riusciva a capire come, cinquant’anni
dopo, avessi ancora tanta forza in copro da cercar di lottare contro l’ineluttabile
con il mio giornalismo che qualcuno definisce sprezzantemente “onesto” fra
virgolette perché non capisce (per phýsei e thèsei: cioè per [propria]
natura e per [propria] posizione) quid sit honestas, cosa sia
l’onestà – e la confonde con il successo economico e monetario, da perfetto
sostanziale calvinista elvetico.
È, Paolo, che io sono fatto così per phýsei
e thèsei: cioè per [mia propria] natura e per [mia propria] posizione.
Di meglio non so dire o spiegare: ma se
tu, dopo mezzo secolo, e dopo tanti decenni di silenzio, ti rivolgi ancora di
nuovo a me come allora sui pochi gradini del corridoio del Forteguerri, questo
non può che voler dire una e una cosa soltanto: che nulla è cambiato a livello
umano e profondo, pur nella diversificazione di due vite differenti e in
differenti direzioni orientate. E che il dialogo e la ricerca possono
continuare – come dici tu – in “Pura Semplicità”.
Perché – vedi, caro Paolo? – io non credo che sbaglino gli uomini alla ricerca ancora
dopo 50 anni di vita, tormentati e problematici: no. Ma coloro che, pur
ottuagenari come il personaggio di Ippolito Nievo, dopo una vita solo di successi
e di brillante carriera, sono a un passo dal traguardo e – come scriveva Seneca
– non se ne avvedono e pensano che la Morte sia distante da loro perché non
solo non la intravedono, ma – in assoluta superbia – non la concepiscono
neppure: mentre essa è tutta alle loro spalle, in quegli ottant’anni che sono
già tutti suonati.
E vivono come dovessero essere eterni:
forse perché non hanno mai letto La roba di Verga e, come Mazzarò, hanno
fondato tutta la loro esistenza non su se stessi e i loro sforzi umani, ma sui
beni materiali e su ciò che, nella tomba, non ci si porta proprio.
Ti abbraccio fraternamente e ricambio
il tuo ‘anomalo’ augurio natalizio con ogni affetto.
Con il piacere di averti ritrovato
fresco e intatto come il giovanetto di ieri, di mezzo secolo fa.
Edoardo
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[Lunedì 17 dicembre 2012 - ©
Quarrata/news 2012]
Mamma mia che bel carteggio!
RispondiEliminaMDB