di Luigi
Scardigli
Ieri sera al Verdi di Montecatini non
tutto è andato come doveva, a cominciare dall’acustica
MONTECATINI. Serata non fortunatissima, quella che si è consumata ieri
al teatro Verdi di Montecatini, dove sul palco dell’anfiteatro termale è andata
in scena, accompagnata dai suoi fidati sei sessionisti, Nina Zilli.
Il primo tempo infatti, quando la vocalist avrebbe dovuto
iniziare a modularlo un po’, il suo diaframma se l’è portato via un’acustica
decisamente approssimativa: un magma indecifrato e indecifrabile di rumori tra
i quali, l’unica cosa che è giunta forte e chiara, sono stati quelli,
didattici, troppo didattici, emessi da Nicola Roccamo, alla batteria. Non
pervenuti, a sound, Eggy Vezzano e Gianluca Pelosi, rispettivamente alla
chitarra e al basso. Anche Angelo Cattoni, alle tastiere, non è stato
supportato da un sound check forse frettoloso. Si sono salvati, per
destinazione, Riccarso Gibertini e Marco Zaghi, i due fiati della formazione:
il primo alla tromba, l’altro al sax.
Ma è Nina Zilli, l’astro nascente, che non si è mai
illuminato a dovere, nonostante i numerosi presenti fossero decisamente ben
disposti nei suoi confronti.
Le sue canzoni, che hanno già vertiginosamente scalato le
vette degli ascolti e dei gradimenti, sono state canticchiate un po’ da tutti,
indistintamente armati di tutta la tecnologia possibile ed immaginabile, un
salto nel futuro pensando ai fotografi supportati di classe, tempismo,
pazienza, acume e senso della prospettiva solo con i loro teleobbiettivi
70-300.
I cuori degli spettatori, per scendere nei dettagli emotivi,
non hanno versato sangue; lo schermo, in gergo comunicativo, Nina non è
riuscito a bucarlo.
Peccato, perché i presupposti c’erano tutti, a iniziare da
una scenografia minimalista, asettica, metallica, anni ’50, come la sua pettinatura, per non parlare del tubicino
viola con il quale si è presentata e che le ha fasciato il corpo nel primo
spazio, mise conturbante che è poi stata sostituita da un lungo,
stile-Cenerentola e poi ancora da uno spezzato, dark fascinosa.
Muove con ritmica adulazione il bacino, la cantante
emiliana, e riproduce, con discreta ammiccanza, le lebbra di Betty Boop, per
non parlare del volteggiare delle mani, vago ricordo della monumentale Mina,
con la quale si è voluta misurare nell’esibizione, in italiano-inglese, della
indimenticabile, e forse irriproducibile, Grande,
grande, grande.
Ma che qualcosa di distorto,
ieri sera, aleggiasse nella tana degli spettacoli valdinievolina, ho avuto il
sentore di avvertirlo prima dell’inizio del concerto, con un servizio d’ordine
decisamente non all’altezza della situazione e un rigore tattico e sintattico
veramente poco consono ad uno spettacolo.
Anche i cuoricini disegnati dalla Zilli con i pollici e gli
indici congiunti tra loro, al termine di ogni singola esibizione, non
collimavano mai con quel groove che non è voluto sbocciare. Certo, un’acustica
indecifrabile non ha in alcun modo favorito l’afflato, ma è mancata la sua
personalità, quella che trasforma una cantante in altro, che nei teatri viene tradotto con il termine evento.
Non cambia il passo, Nina Zilli, non si stacca dalle sue
pilotate certezze, non rischia nulla, così come i sei professionisti che l’accompagnano
nella tournée, L’amore è femmina; una
buona lezione mal supportata che ha fatto pensare, a più di uno spettatore, che
per adesso, la cantante, somiglia più alla signora Zilli (la mamma) che non a
Nina (Simone).
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Foto di Luigi Scardigli.
[Sabato 1° dicembre 2012 - © Quarrata/news 2012]
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