di Luigi
Scardigli
Si può dar credito a un disonesto? No, naturalmente, a patto
che il detestabile soggetto non diventi un collaboratore di giustizia, un pentito. Senza queste figure, infatti,
decisamente border line, la Giustizia
italiana, negli ultimi tempi, avrebbe dovuto affidare le proprie sentenze ad
improvvisate Cassandre e dare così
oracoli non certo confortanti.
La premessa è d’obbligo, e mi è parso opportuno farla, per
raccontarvi le sensazioni che ho avuto osservando parte della conferenza stampa
tenuta, nel pomeriggio, da Antonio Conte, allenatore della Juventus condannato
a dieci mesi di squalifica per omessa denuncia.
Non sto qui a raccontarvi i dettagli della vicenda: la
stragrande maggior parte dei lettori di questo blog, del calcio, se ne
infischia; chi ne sa qualcosa, sa già tutto.
Antonio Conte ha detto, con gli occhi fuori dalle orbite, di
essere stato portato a mite consiglio – il patteggiamento – proprio dai suoi legali, il fior fiore dell’avvocatura. «Cosa devo patteggiare? Reati che
non ho commessi, cose che non so e che non ho visto?», ha tuonato
un incazzatissimo Conte.
Non sono un tifoso della Juventus e Conte, in particolare,
non mi è affatto simpatico e non so – no, non credo – se sia innocente.
Un dato è certo: l’accusa e la condanna emesse nei suoi
confronti sono figlie di dichiarazioni di un personaggio che da anni vendeva la
propria anima, e quella delle gente che gli stava attorno, a chiunque.
È forse necessario rileggere e riscrivere i dettami
giuridici del pentitismo e accettarlo, come deterrente penale per il diretto
interessato, e come voce attendibile in virtù di accuse a terzi, solo nel caso
in cui il collaboratore di giustizia o il pentito si costituisca: chi decide di
cantare lo deve fare spontaneamente
per sperare che qualcuno gli riconosca i requisiti artistici.
Cliccare sull’immagine per ingrandirla.
[Venerdì 24 agosto 2012 - © Quarrata/news 2012]
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