sabato 21 gennaio 2012

«VEDRAI, STARAI MEGLIO, ORA». TRA DOLORE E FOLLIA


Un gesto estremo d’amore. Forse l’unico di tutta una vita dopo quello di averla data a un figlio.
E la madre, una madre, che Márquez definirebbe desalmada, cioè senz’anima, snaturata – snaturata perché al figlio non ha mai pensato finora –, decide di farla finita una volta per tutte; di dare finalmente requie ai tormenti di un figlio che, sempre assecondato, comunque assecondato,
fino al punto di mandarlo fuori dai binari della normalità, ha tentato di rapinare una banca e gli è andata male; è agli arresti domiciliari e ogni giorno il brigadiere della polizia passa a raccoglierne la firma e lo prende in giro; si è fatto e strafatto e vive nel fondo di un letto: vivo solo perché dolorante dei suoi mali che non hanno, apparentemente, soluzione.
È la situazione in cui si muove Vedrai, starai meglio, ora, un atto unico rappresentato all’Arci di Santomato, che ha visto, come personaggi, lo stesso autore, Luigi Scardigli, e una perfetta Dora Donarelli nella parte della madre snaturata.
Scena più semplice non si poteva trovare. Un letto, un trentenne ammalato e malato, ex rapinatore e tossico, e una madre dalle fin troppo ampie vedute che, in gioventù, per l’ansia di essere bella, amata, desiderata, voluta, cercata dagli uomini, ha avuto questo figlio che si lamenta e non la smette mai perché sente male in ogni parte del corpo.
Dolore fisico. Dolore morale. Dolore spirituale.
Tre dolori che fanno parte della nostra vita. Sia perché a volte li proviamo direttamente, sia perché, nei fatti atroci di certa cronaca, li vediamo e li seguiamo nella vicenda umana di altri – e ne restiamo toccati.
Alla madre che rientra da fuori e dalla spesa quotidiana, il figlio si rivolge per chiedere, per la millesima volta, chi sia suo padre: se il poeta o il marinaio o chissà chi altro.
E la madre, per i suoi trascorsi di ampie vedute, non sa che dire; non sa cosa rispondere.
Risponderà, in fondo, con un dono che il figlio accoglie come qualcosa di grande: una siringa.
La droga. La voglia di evadere del figlio che, fino a pochi istanti prima, addolorato e dolorante, ha pianto e urlato e imprecato perché – come ha detto –, per le ampie vedute della madre, gli è stata negata una vita normale, con una donna normale e una casa normale e un figlio normale: 80 metriquadri di appartamento e un mutuo. Una sorta di paradiso terrestre negato.
L’altro paradiso, quello della siringa, gli sarà offerto dalla madre che, in un gesto estremo d’amore, forse l’unico della sua vita, darà finalmente pace alla creatura.
La madre aspetterà il brigadiere e si consegnerà con una semplice frase, come tutte le frasi di questo mondo, verità e menzogna al tempo stesso: «Venite… Mio figlio non è in casa…».
Agghiacciante conclusione con un Luigi credibile e vero, una Dora perfetta. Non avevano nemmeno provato. Ma hanno convinto di colpo, come fosse davvero la loro storia.
Al loro fianco dei flashes in bianconero di grande qualità e suggestione. Straordinari, direi.
Una giovane, bellissima e irraggiungibile, ha cantato, in sordina, con qualche picco di voce acuto come una punta di lancia nel cuore: Olivia Rovai (1982), una voce e una sofferenza che sono un tutt’uno, anche nella sua vita, probabilmente.
Olivia ha eseguito Someone to watch over me e I loves you porgy di Gershwin; My man di Yvain e Veinte años di Vera.
Lo ha fatto tra una luce e un buio.

Togliendo il fiato a tutti. Lasciando muti tutti.
Edoardo Bianchini
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[Sabato 21 gennaio 2012 – © Quarrata/news 2011]

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