di Luigi
Scardigli
Il remake teatrale dell’indimenticabile
cult cinematografico debutterà martedì prossimo alla Versiliana
Simpatica, solare, realista, ma schiva: preferisce l’anonimato,
giù dal palco, ai riflettori, soprattutto quelli perennemente accesi. Tanto che
per intervistarla e farsi immortalare dalla mia modestissima, ma preziosa compatta,
si è solo voltata dalla parte dell’obbiettivo, senza smettere di rammendare.
«Non riuscirei ad immaginarmi altro – confida Pamela
Villoresi, in uno dei camerini del teatro Manzoni dove si stanno ultimando le
prove di Eva contro Eva, il remake
teatrale dell’indimenticabile cult cinematografico degli anni ’50, che debutterà, martedì prossimo, alla Versiliana –, soprattutto in abiti professionali diversi. Sì, sono una
discendente d’arte-ago-e-filo: mia nonna e mia zia, pratesi come lo sono io, le
ho sempre viste armeggiare con il cucito, ma ho iniziato presto anche a
recitare e senza questo mestiere, senza la forza e la resurrezione costante che
mi offre stare sul palco, forse non ce l’avrei fatta».
Vogliamo
parlare dello spettacolo o della tua vita?
«Come preferisci – risponde senza smettere di sorridere e
rammendare –, anche perché non credo che ci sia poi tanta differenza.
Non ho mai smesso di amare, né di soffrire, ma non per quell’equazione che non
condivido di amore e dolore: il dolore mi ha accompagnato, ma la forza dell’amore,
fino ad ora, mi ha permesso di sconfiggerlo. Se me lo fossi potuto permettere,
se fossi stata ricca sfondata, avrei lasciato il palco per dedicarmi, anima e
corpo, al mestiere della mamma; per fortuna non mi sono lasciata lusingare mai
più del dovuto dai tentacoli della maternità, altrimenti ora, dopo la morte di
mio marito, sarebbe stata dura, molto dura, sopravvivere».
Allora
parliamo dello spettacolo...
«Fino ad ora, Maurizio (Panici, il regista, n.d.r.) si è
sempre lasciato ispirare dalle mie illuminazioni, folgorazioni, desideri
scenici: stavolta, l’idea di portare in scena questo filmone, è stata sua e non mi potevo certo tirare indietro. Ho
fatto bene, è uno spettacolo molto bello, richiestissimo ovunque, anche se non
posso nascondere una piccola perplessità che mi ha condizionato un po’, prima
di lasciarmi andare: ho storto il naso all’idea che il messaggio che passa,
trasversale e diretto, è che per la carriera si sia disposti a tutto. Ho
pensato ai giovani d’oggi, alle prese con il lavoro che non c’è, con la
sopravvivenza che è diventata una scommessa, più che con la carriera, e allora
mi sono auto persuasa, convincendomi che il messaggio, molto statunitense,
potesse essere portato anche da noi, sessant’anni dopo».
Enfant prodige, Pamela Villoresi riesce a districarsi, con estrema
naturalezza e autorevolezza, tanto sui palcoscenici in diretta, quanto sul
piccolo e grande schermo: in televisione si vede decisamente meno, ma con quel
che passa ora quel convento, c’è da rallegrarsene.
«Siamo nel bel mezzo di un’alluvione sottoculturale spaventosa
– sentenzia, senza timori –: un attimo di pausa,
staccando la spina, credo che sia salutare e doveroso. Aspettiamo che torni la
bonaccia e qualche buon proposito».
Condannata a
lavorare tutta la vita, casomai con un’uscita epica, la morte in diretta, sul
pezzo, come si dice in gergo?
«No, preferirei invecchiare in disparte, anche se credo che
non mi dispiacerà, ogni tanto, quando i muscoli, la voglia e la lucidità mi
sosterranno meno, fare qualche apparizione: anch’io, sai, di protagonismo, un
po’ ne soffro».
Bussano alla porta, parte la prova generale. Non mi dice
nulla, facendomi comunque capire che basta così. Le prometto che domani, prima
della partenza per la Versiliana, le porterò il mio ultimo romanzo: «Questa è un’altra cosa che avrei voluto fare: scrivere. Mai
dire mai, e poi, avrò un’altra occasione. Chissà…»
conclude.
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Foto di Luigi Scardigli.
[Sabato 4 agosto 2012 - © Quarrata/news 2012]
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