di LUIGI SCARDIGLI
PISTOIA. Non capii, quel giorno. Non potevo capire. Avevo quindici
anni appena. Ero troppo giovane per capire. Ricordo però che da quel giorno,
quel 16 marzo 1978, in questo Paese, nel mio Paese, qualcosa era cambiato. Per
sempre.
A distanza di 35 anni, in qualche
angolo di questo paese, che nel frattempo è diventato con la p
minuscola, si è voluto ricordare quel giorno, quella strage, quell’attentato.
Morirono solo cinque persone, è vero, quel giorno, i cinque agenti della scorta
di Aldo Moro: lui, il segretario della Democrazia Cristiana, fu miracolosamente
(?) salvato dalla gragnuola di bossoli (se ne contarono oltre 150) esplosi a
distanza ravvicinata da un commando di brigatisti rossi, un commando che mise
in atto una rappresaglia militare degna delle migliori esercitazioni da servizi
segreti.
Prima di uccidere Aldo Moro il tribunale proletario, che lo tenne
prigioniero in via Gradoli, a Roma, sulla Cassia, una strada privata costellata
di lussuose villette di proprietà degli uomini della P2 (recentemente affittate
alle avvenenti transessuali brasiliane appetite da Marrazzo e molti altri
uomini insospettabili), provò a
processarlo l’artefice del Compromesso Storico, ma senza cavarne nulla di
interessante. Anzi, fu proprio durante quei 55 giorni di detenzione che il
vertice delle Br capì che Moro doveva essere ucciso.
Così fu. La commedia si completò 55 giorni dopo il sequestro, in via Caetani,
tra Botteghe Oscure e piazza del Gesù, tra i quartier generali della Dc e del
Pci, con il corpo raggomitolato di Aldo Moro nel bagagliaio di una anonima
Renault 5. Rossa.
Quel 16 marzo 1978 Aldo Moro si stava
recando a firmare un documento epocale: il Partito comunista italiano, forte di
oltre dieci milioni di elettori, aveva legalmente sfondato il muro delle
diffidenze, nonostante quello di Berlino godesse di ottima salute, e nessuno
poteva immaginare che nel giro di breve il pontificato sarebbe stato affidato a
Wojtyła, il vero picconatore.
Ricordo perfettamente tutto, di quei
giorni, di quel capitolo di storia contemporanea, perché è su quelle pagine
vergognose che ho discusso la mia tesi di laurea a Scienze Politiche, nel 1990.
Non mi ci volle molto, a prepararla, la tesi. Mi presentai nello studio romano
di Aldo Moro, nel 1988, dici anni dopo l’assassinio del padre, e chiesi al
figlio Giovanni la cortesia di poter sbirciare il patrimonio paterno. Tirai
giù, con emozione e cura, dagli immensi scaffali, alcune raccolte degli
interventi di Aldo Moro ai vari congressi della Dc: ricordo perfettamente,
senza sfogliare la mia tesi, il succo dell’intervento di Moro al decimo raduno
del suo partito, a Bari: il partito
comunista, con un elettorato di oltre otto milioni di persone, molte delle
quali lavoratori di fabbrica, non può stare all’opposizione.
Ci voleva del coraggio, in casa
Andreotti e Fanfani, ad affermare certe cose. Moro ne ebbe e da lì,
probabilmente, iniziò il processo a suo carico, terminato il 5 maggio, nella
bauliera della Renault 5. Rossa.
Non sono l’unico a pensarla così. Ma
non lo scrivo per consolarmi o per dar forza alle mie teorie. Del mio stesso
identico avviso, ad esempio, c’è un noto esponente del Pdl, Renzo Martinelli,
di professione regista. È lui, che oltre due lustri or sono, ha portato nella
sale cinematografiche il suo Piazza delle
Cinque Lune, un documento-pellicola affidato alla sapienza recitativa di
Giancarlo Giannini e Donald Sutherland. Si parla della prigionia di Moro e
degli innumerevoli contrattempi ai quali il regime di allora andò bellamente e
goffamente incontro. Furono i giorni, quegli indimenticabili 55 giorni, nei
quali il Paese scoprì l’irremovibilità, l’intransigenza: nessun patto con le
Br, nessuna azione eclatante. In via Gradoli, sulla Cassia, gli agenti, dopo
aver inutilmente cercato il corpo dello statista di Maglie in fondo al lago di
Gradoli, ci andarono anche, ma non ricevendo alcuna risposta al citofono,
desistettero.
Le Br in realtà erano ormai grandi, da
tempo. Ma dal 1972, sei anni prima quell’eccidio, quel processo, a porte
aperte, proprio come recitava uno spot della Renault, la guida del movimento
clandestino aveva subito un arrocco: Renato Curcio, leader indiscusso, era
stato tratto in arresto (con Frate Mitra, alla stazione ferroviaria di Cuneo) e
al suo posto era arrivato Mario Moretti, un intellettuale strano, che si era
forgiato all’Università di Parigi, con i soldi dei servizi deviati, si dice.
Con Curcio, la strategia era quella
delle azioni dimostrative (rapimento e liberazione del giudice Sossi, su
tutte); con Moretti, il movimento ebbe un’impennata militarista: iniziarono le
condanne a morte. Vittorio Bachelet, Guido Rossa, Walter Tobagi, Emilio
Alessandrini. Ne cito quattro, senza che gli orfani degli altri si sentano
dimenticati. Ne cito quattro, ma non a caso: il primo era un docente
universitario, freddato in Ateneo, a Roma; il secondo un operaio dell’Ansaldo,
del servizio d’ordine della fabbrica, giustiziato a Genova; il terzo un
giornalista del Corriere della Sera, fucilato in macchina; il quarto un
esponente di spicco di Magistratura Democratica, tutti nemici giurati del proletariato e per questo condannati a morte.
Il 29 giugno 1990, quando riuscii a far
passare la mia tesi di laurea al Dipartimento di Scienze Politiche, dopo che l’entourage
universitario mi invitò a desistere da quella discussione, venne il giorno
della mia discussione.
Il professor Ceccuti, Cosimo Ceccuti,
di Storia Contemporanea, mi disse, prima dell’inizio della discussione, che
dalla media algebrica dei miei esami sostenuti, mi avrebbe tolto qualcosina.
Vantavo una media tra il 26 e il 27: laurearsi con 98 o con 93 sarebbe stata la
stessa identica cosa.
Quel 16 marzo 1978 ero troppo piccolo,
per capire. E non capii. Il tempo è passato. Per tutti. Anche per me.
Il 29 giugno 1990 mi sono laureato. Voto
di laurea, 66, il minimo. E ho capito.
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[Sabato 16 marzo 2013 | 15:12 - © Quarrata/news]
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